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L’economia è come una bicicletta: se sta ferma è inutile, se è in movimento giustifica la sua ragione d’essere. L’economia contemporanea ha senso solo quando è in continuo movimento e crescita. Quando si ridimensiona è in crisi, se si ferma è la fine. Per essere in movimento però ha bisogno di lavoro, di produrre, di fare cose. Non è un male di per sé (il bene e il male, per quel che ne so e quel che conta, non esistono): è una constatazione.

Trattandosi ormai dell’unica religione sopravvissuta – la più subdola, perché è riuscita a farsi scambiare per qualcosa di diverso da una religione – l’abbiamo accettata come i pesci di Wallace hanno accettato l’acqua: come qualcosa così scontato che non ci si presta nemmeno attenzione, fino a dimenticarsene.

Bisogna lavorare per fare cose che generino scambi commerciali che aumentino o quantomeno mettano in circolo le masse monetarie per produrre ancora più cose ecc. ecc.

Le cose possono essere materiali (case, macchine, lavatrici, cellulari, vestiti) ma anche immateriali (servizi, app). Non è in questo caso interessante stabilire se sia giusto o sbagliato: è un modello che in buona parte funziona, anche perché permette di sostenere uno stato sociale e una vita collettiva, con notevoli effetti positivi (infrastrutture, cure mediche, assistenza ecc.). La decrescita o il vivere minimale appaiono sempre meno sistemi filosofici (che, se elevati a sistema, comporterebbero il crollo del sistema stesso) ma piuttosto una necessità: pagato tutto quello che c’è da pagare per vivere (cibo, casa, tasse ecc.) quel che resta, almeno in molti casi, comporta uno stile di vita minimale.Iscriviti

Si diceva che la cosa più interessante è che si tratta di un sistema messo molto poco in dubbio: le forze oppositive che deve sopportare sono quelle di chi ne evidenzia le storture e lo sfruttamento, le devianze e le mancanze.

Questa critica però si alimenta dell’opposizione al sistema: non avrebbe infatti ragione di esistere se non esistesse il sistema stesso.

Quello di cui si discute di meno o affatto è un mondo in cui il lavoro non esista del tutto, come un acquario senza acqua perché non ce n’è bisogno, perché i pesci non dipendono più dall’acqua, per così dire.

***

La critica che invece viene fatta a chi propone quantomeno di ridurre la nostra dipendenza dal lavoro è che è necessario, che non ci sono alternative. Credo che non ci siano ancora alternative, così come credo che fra qualche secolo o millennio – se mai esisterà ancora il genere umano – si studierà questo presente come un passato in cui curiosamente si dedicava più di un terzo della giornata a fare qualcosa per ottenere in cambio del denaro, per poi vivere di quello. Magari non esisterà nemmeno più il denaro, chissà (magari, sarebbe un’interessante e positiva evoluzione).

Comunque. Giungevo in settimana a queste riflessioni affatto definitive guardando dei disegni del sommo Christoph Neimann, in particolare questa copertina, la sua ultima per il New Yorker.

Di copertine per il New Yorker lui ne ha fatte decine e ogni volta che ne vedo una mi stupisco di quanto riesca a essere imprevedibile: la sua risposta al tema proposto dagli editor non è mai quella che ti verrebbe in mente e la tecnica con cui la realizza varia sempre. Neimann lavora con pennarelli, acquerelli, chine, Lego, stampe tipografiche, foto. Utilizza moltissime tecniche diverse e spesso anche animazioni. Non ha uno stile definito o immediatamente riconoscibile (non è come un’altra che ha fatto moltissime copertine della stessa rivista, e cioè Malika Favre, che invece è molto facilmente riconoscibile). Lui lo è per il suo atteggiamento più che per lo stile: è come se rendesse visibile un raffinato ragionamento e, una volta codificata la sua immagine, è impossibile non attribuirgliela. I suoi lavori sono legati insomma dall’elegante palinsenso intellettuale che li sostiene.

Tutti o quasi hanno però un elemento comune: sono semplici nell’espressione e nel gesto grafico, danno cioè l’impressione di essere stati realizzati in poco tempo. Tanto che mi chiedevo se questo potesse essere un parametro di giudizio del suo lavoro perché nella logica economica moderna – o almeno in una sua gran parte – un lavoro apparentemente poco faticoso (nel senso di eseguito in poco tempo) è percepito come di valore inferiore. E quindi pensavo che questa stessa economia pensa di vedere nelle cose tutto il loro valore mentre queste non ne rivelano che una parte. Mi spiego: è probabile che le sue grafiche non richiedano giornate di lavoro per essere eseguite ma quello che lasciano vedere è la superficie di un ragionamento che ha richiesto giorni, anni, decenni.

Per metterci 3 ore a disegnarne una, Niemann c’ha impiegato vent’anni.

Se la nostra società premia il risultato, chi ottiene il massimo con il minimo sforzo – oltre che economicamente super efficiente – dovrebbe essere altrettanto premiato. In fondo si sta dimostrando massimamente economico, giusto? Il massimo risultato con il minimo sforzo.

Immagino che Niemann sia ben pagato per le sue copertine e lo merita. L’ho scelto solo perché mi ha portato a ragionare in questi termini. Il suo lavoro è giustamente compensato per un altro motivo, e cioè perché ha un valore, quanto meno all’interno dell’ambito dell’editoria in cui lui opera.

Il valore delle cose è centrale nella teoria economica. Le cose hanno un valore e il lavoro ha un valore. Quindi, se ne deduce, il lavoro è un prodotto, è una cosa acquistabile in un mercato, non a caso chiamato “mercato del lavoro”.

Il valore non è il costo né il prezzo di qualcosa. Lo dimostra il fatto che prodotti simili hanno prezzi diversi: una maglietta, per dire la più semplice cosa, può costare 5 o 500 euro. Il suo valore infatti rappresenta ciò che significa quel bene per qualcuno, che tradotto in termini numismatici, è la quantità di denaro a cui si è disposti a rinunciare pur di possederlo.

Se ne deduce che il valore del lavoro – di qualsiasi lavoro – è la quantità di denaro a cui è disposto a rinunciare chi compra un lavoro, o meglio il tempo di chi lo sa praticare. Tralasciando per ora che si tratti di un valore non definito individualmente ma all’interno di un mercato e per categorie, è chiaro che è una logica che si applica più facilmente al mondo dell’industria o in settori in cui il prodotto del lavoro sia facilmente quantificabile (per esempio per numero di pezzi prodotti).

Diversamente accade nei prodotti intellettuali o artistici. Come nel caso di Niemann, il tempo (altra variabile necessaria a definire il valore “manifatturiero” di qualcosa) è trascurabile: per fare materialmente una copertina del New Yorker, Niemann potrebbe impiegare due giorni ma per concepirla c’ha messo 10 anni, affinando la sua sensibilità e seguendo ragionamenti interiori per sentieri mentali infiniti.

A oggi non c’è un modo semplice e universalmente accettato per compensare il lavoro intellettuale. La democratizzazione della sua disponibilità con sistemi come Fivvr (parlando di grafica) o simili ha distribuito di certo più diffusamente l’offerta di lavoro, diminuendo contemporaneamente il suo valore: il paradosso è insomma che oggi sono ricompensati con molto meno un numero infinitamente più grande di grafici. È insomma cambiato il modello distributivo di quel tipo di lavoro, ma non proporzionalmente il capitale che lo alimenta.

Questo ragionamento, che è partito dal lavoro per arrivare al valore dello stesso nell’ambito creativo, non ha una soluzione. È un pensiero così lungo che non è ancora giunto a una fine. Oppure ne propongo una, filosofica.

***

Come accennato prima, non c’è una soluzione alternativa al lavoro, almeno fintanto che non sia merce di scambio (ed è uno scambio di tempo, prima ancora che di capacità intellettuali o materiali). Il lavoro è inoltre un sistema filosofico risolto in sé stesso, come dire: autoreferenziale. Giustifica la sua esistenza per il fatto che dà un senso alle esistenze e non ammette alternative. Non è un caso che la Costituzione Italiana lo ponga a fondamento dello Stato stesso. Il lavoro insomma dà dignità all’esistenza umana, per un motivo semplice: dà un valore all’individuo all’interno del sistema. Chi produce contribuisce al sostentamento della società, in altre parole fa la sua parte. Basti pensare a come sia esistenzialmente emarginante non avere un lavoro: si tratta infatti di una condizione che pone l’individuo al di fuori del sistema produttivo, facendolo dipendere da altri.

Il sistema di valori in cui l’individuo è educato e cresce pone al centro il valore del lavoro, senza fornire alcuna alternativa. Che sia limitante o claustrofobico lo lascio decidere al lettore. È un sistema che si perpetua da secoli, curiosamente con gli stessi personaggi ma con nomi diversi: il re è oggi il miliardario, i vassalli sono i suoi lavoratori. Si tratta sempre dello stesso modello di co-dipendenze che si perpetua all’infinito, compresa la sudditanza psicologica e i perversi meccanismi che legano nell’odio e nell’amore, nell’ammirazione e nel disprezzo chi offre lavoro e chi lo esegue.

Quel che se ne deduce è che la società non ha prodotto niente di diverso – per ora – da questo modello. Forse gli storici del futuro ci osserveranno incuriositi dal fatto che vi dedicassimo gran parte delle nostre vite. Forse quel che facciamo oggi lo faranno le macchine ed essere senza lavoro sarà una condizione naturale, perché si farà dell’altro.

Come si è capito, non dipenderà solo da come concepiremo il lavoro ma soprattutto da come avremo ridefinito la società e i pilastri su cui fondarla. Da come concepiremo la vita, insomma.

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