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La realtà sospesa

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La realtà sospesa

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L’impressione più straniante generata da questi stranissimi e difficili giorni è che la vita urbana stia trattenendo il respiro. Un modo per descriverla è questo: la gente cammina e si sposta come se non volesse far rumore. Al mattino mi sveglio e mi chiedo se è domenica: sento pochissime macchine passare nella strada sotto, vedo solo qualche persona isolata o in piccoli gruppi. Per il resto le nostre città — almeno alcune (non vivo in zona rossa, anche se tutti ci siamo ma vabbè, è per dare un’idea) sono calate in un silenzio, diciamo, inusuale. Non amo affatto drammatizzare, quindi non penso che vi sia niente di sinistro o nefasto in questa realtà. È naturale percepire la frattura nettissima fra il prima e il dopo. Fra la normalità precedente e quella — momentanea — di oggi.
A voler riferire ogni pensiero all’oggi e al momento corrente — e senza proiettarlo nell’imminente e probabilissima prossima crisi economica, come se ci fossimo risollevati giulivi dalla precedente — viene da pensare che l’intera città, qualsiasi città in cui si adottino limitazioni autoimposte o meno, è diventata come un teatro in cui il regista non ha ancora deciso con precisione che movimenti far fare agli attori. Siamo attori che solcano quel palco descrivendo traiettorie un po’ casuali, alcuni fingendo di sapere con precisione cosa devono fare, altri semplicemente camminando.
Il tempo del teatro è quello imposto dall’autore, quello di questo inedito teatro urbano è quello imposto dalle autorità sanitarie. Solo che la rappresentazione durerà per un tempo indefinito, per ora.
Come molti leggo diverse cose. Anche troppe, tanto che sono giunto alla conclusione di evitare accuratamente di leggerne altre. Rispetto le regole e i consigli, guardo i titoli ma non approfondisco, più che altro per evitare la spietata giostra emotiva. L’umore trova già in autonomia i suoi modi per variare come gli pare, meglio non dargli altri motivi per farlo.
Giunto alla saturazione informativa ho iniziato a guardare questa nuova realtà con occhi diversi. Che poi, tanto nuova non è: è molto familiare, solo che ora le persone non fanno rumore e c’è molto più silenzio. Le notizie ci dicono che molto vicino a noi c’è gente che cerca di salvarne altra, gente che se ne frega, gente che seda rivolte nelle carceri, gente che emotivamente non ce la fa più. Un po’ come una volta o sempre: nel mondo succedono cose tremende ma la vita va avanti. Con la differenza che oggi succedono a pochi chilometri da te e quello che non ce l’ha fatta è lo zio di un tuo amico o è uno che non sta a molti gradi di separazione da te.
È come giocare a battaglia navale: tu sai dove sei ma non sai da dove ti arriverà la bomba o il siluro. Speri nel caso e fai finta che sia tutto normale. A differenza della battaglia navale però tu non puoi sparare. Devi solo sperare che non ti becchino. È una battaglia navale molto asimmetrica.
Tutto è familiare ma un po’ meno familiare del solito, si diceva.
Io ho un po’ la tara del tempo e quindi leggo tutto sotto quella lente: siccome lo considero la variante più importante delle nostre vite — non in termini di ore e minuti ma come grandezza filosofica — mi incuriosisce come ne è cambiata la percezione in questi giorni. Nessuno parla più di orizzonti temporali. Quella bella espressione astronomica, cioè “L’orizzonte degli eventi” — non è più nemmeno citata.
Non ricordo con chi parlavo di “tempo sospeso”. Ricordo che lo scrivevo per poi accorgermi che era l’espressione esatta per descrivere questo tempo.
Il tempo sospeso è un tempo in cui non si sa cosa succederà e in cui si trattiene il respiro. In questo tempo non si ha molto potere e si può solo fare poco rumore, il meno possibile.
Allora mi è tornato in mente De Chirico e i suoi spazi urbani in cui ci sono portici e ombre e pupazzi inanimati e molta metafisica. Ci penso spesso quando passeggio per la città in agosto e non c’è nessuno se non io e le pietre cotte dal sole. Solo che agosto sta in una stagione che dura qualche mese e ora c’è ancora un po’ di freddo e non si sa quanto durerà.
Pensare alla città silenziosa e dechirichiana me l’ha fatta vedere in diversi modi. Vedere con l’occhio dell’arte o attraverso gli occhi degli artisti che hanno mostrato cose familiari come nessuno le aveva mai viste (una delle cose più belle dell’arte) mi ha fatto pensare a quanto, appunto, l’arte aiuti a vedere un futuro che non è ancora e che potrebbe essere come potrebbe non essere. Non tutta l’arte ma insomma, diciamo che certa arte ha la capacità di farlo e non c’è altra espressione umana che ci riesca così precisamente.
De Chirico non dipingeva di certo questi tempi ma dipingeva qualcosa di simile: un tempo assoluto (sospeso) in cui gli umani sono delle macchine inanimate o a volte non ci sono nemmeno. È rimasta solo la città e la memoria di quel che l’uomo ha fatto, ma senza più l’uomo.
Non volevo però parlare di De Chirico. Mi è tornato in mente perché ha descritto così bene una condizione umana molto precisa e ora ci siamo dentro. Succedono cose, molte di queste sono orrende, sono appena oltre gli edifici di quella città, appena al di fuori di quella realtà metafisica. Tutto il resto è molto poco metafisico, purtroppo: è reale e fa molto male. Il tempo è quello che ci resta fra le mani: è tanto o poco? Non si sa: è sospeso. È oltre ogni criterio di misura. Dura giorni, ore, secondi ma non si sa quanto durerà in tutto.
È una strana condizione. Pochissimi ci hanno mai vissuto, intere generazioni non sanno neanche cosa sia. Non si fanno programmi, il futuro è un desiderio, una speranza, uno scongiuro: che sia meglio di ora e più simile al passato, grazie.
Oppure non si pensa nemmeno più al futuro, o non come prima. C’è, arriva, è da qualche parte. Ora siamo qui, nel solo presente.
Non è proprio un presente filosofico: non è il qui e ora, non è una condizione ricercata con la meditazione. È costretta, vi ci siamo trovati. È sospesa, appunto. De Chirico l’aveva già dipinta, ora ci siamo dentro.

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