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Influenza

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Influenza

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Perché di Adam Smith viene citato solo “The Wealth of Nations”? Una risposta l’ha data il sempre ottimo podcast Freakonomics. Sarà che è il suo scritto più famoso – mi dicevo – o che è quello economico e, siccome siamo ossessionati dai soldi, è inevitabile che si vada sempre a parare lì. Invece no, le cose non stanno così. 

The Wealth of Nations viene sempre citato perché è l’unico libro “economico” dei due libri che ha scritto, essendo l’altro un trattato di filosofia morale, che figurati cosa ce ne frega oggi della filosofia morale (ormai è diventata psicologia del comportamento – sospetto – e la si trova interessante perché offre letture della realtà e della psiche comunque in chiave economica). Di due ne resta insomma uno solo e non è che lo si cita tanto per rispetto di Smith – ci sono decine di altri economisti o filosofi magari famosi ai loro tempi e oggi totalmente dimenticati. Lo si cita perché è considerato – ed è – un testo fondamentale. Che ovviamente io non ho mai letto, anche se devo averlo in biblioteca. 

(En passant: ho risistemato la biblioteca e ora ho finalmente una parete di libri. Un muro di libri, come potrebbe essere un Wall of Sound se fosse di casse e diffusori audio ma invece è un muro di libri e lo guardo compiaciuto, pensando soprattutto a quanto siamo – sono – stato illuso a pensare che i libri elettronici avrebbero sostituito quelli cartacei. Non succederà mai – credo e mi lludo – anche perché questo Wall of Books emana energia mentre un lettore di libri elettronici ne conterrà pure migliaia – di libri, o di parole digitali – ma è un elettrodomestico che da spento è brutto come un televisore, mentre i libri sono sempre accesi, anche di dorso. Fine della parentesi)

La seconda scoperta è che quel libro di Smith e il pensiero di Smith stessi sono stati e sono tutt’ora strumentalizzati dagli studiosi e, in genere, da chi aveva e ha motivo di strumentalizzarli. Tipo: di Smith si cita sempre la metafora della mano invisibile del mercato. Lui l’ha inventata e usata ma solo una manciata di volte. Mentre questo bel concetto è diventato, nelle menti dei posteri, un pilastro del suo pensiero. È un’immagine molto chiara ed efficace, solo che non è così centrale per Smith.

La riflessione sulla sua influenza ha, a questo punto, almeno un paio di ramificazioni: l’assunto è – si diceva – che non serva scrivere di tutto e bulimicamente per avere influenza. A volte un’idea forte è sufficiente e può sopravvivere a chi l’ha pensata e ai decenni. Ovviamente semplifico, non è che Smith abbia avuto una sola idea e la sua parabola intellettuale è più complessa. 

Le riflessioni ancillari che da ciò scaturiscono sono due, e generano da come chi è venuto dopo di Smith ha letto o ha voluto leggere il filosofo scozzese.

La prima è che vale sempre la regola fondamentale della comunicazione, e cioè che chi dice o scrive qualcosa non è responsabile di come quel qualcosa viene interpretato e capito. La seconda è che l’interpretazione può essere fedele o interessata, nel senso che – in quest’ultimo caso – che c’è anche chi interpreta in modo da avvalorare una tesi, prendendo ciò che serve all’uopo, esaltandolo o storpiandolo, mettendo in ombra altre parti di un pensiero che, come tutti i pensieri più interessanti, è complesso e vasto.

Per questo Smith è ancora citato e universalmente considerato come il padre del liberismo più estremo, mentre – come noto il giurista Guido Rossi nel 2008 – la sua celebre metafora della mano invisibile era innanzitutto una citazione del Macbeth di Shakespeare ed era usata in tono ironico. 

La seconda riflessione riguarda ciò che resta di un pensiero quando non esiste più chi l’ha pensato. A quel punto questo muta, non di certo per volontà propria ma per quella di chi ripensa quel pensiero e se ne appropria. 

È evidente che questo accade per i pensieri più forti. Nessuno piegherebbe a intepretazioni fantasiose o devianti un pensiero debole ma se se ne ha per mano uno che è considerato da secoli come i Dieci Comandamenti la tentazione è forte. Fortissima. 

Quindi.

Quindi un pensiero o una teoria alla fine si scontrano sempre con la semplificazione corrente, destinata tra l’altro a essere sempre più semplice (nel senso di meno complessa) perché ormai è faticosissimo pensare e articolare, è meglio dire poche cose, possibilmente ventrali (nel senso che da lì provengono), rilassandosi all’idea che discendono da Smith o simili e quindi male non possono fare. 

Concludo dicendo che il paradosso dell’influenza intellettuale di un autore o artista è che essa non è mai nel dominio dello stesso. Smith non ha potuto niente contro chi, dopo di lui, diceva che lui avrebbe scritto o detto cose che lui non aveva mai scritto o detto o comunque non aveva mai inteso in quel senso. Quindi, se ne deduce, esiste un’influenza involontaria o incontrollabile, e l’ulteriore paradosso è che più le idee originarie sono forti, più è probabile che vengano storpiate o interpretate all’uopo. Qualsiasi testo religioso può confermarlo.

Come dice qualcuno, “Oggi Smith è uno fra i più citati e i meno letti al mondo”, perché del suo pensiero si prendono quelle parti che confermano tesi, manipolandole o travisandole. 

Resta però una misura ben precisa, in totale contrasto con il concetto di influenza odierno, esclusivamente basato sulla presenza, sulla produzione di contenuti che non possono che essere vacui e inconsistenti data la frequenza con cui vengono generati. Il concetto di influenza è infatti oggi più un presidio armato di posizioni conquistate producendo nel senso corrente del termine: fare, non importa cosa, ma fare. O mostrare che si fa, illudere, blandire, ammiccare.

Quello di Smith è un pensiero lungo per eccellenza. Continua a parlare a secoli di distanza, è oggetto di studio, di interpretazione e di manipolazione. Eppure è anche molto vivo e prolifico. La calma con cui venne elaborato – ci vollero 17 anni a Smith per scriverlo – gli guadagnò la fame di essere autore lento o riflessivo, a seconda di come la si guardi, ma conferma che le grandi idee devono essere generate con elaborato parto, perché si tratta di giganteschi animali, completi in ogni parte, poderosi e monumentali.

Smith è anche uno dei pochi autori capaci di essere sia influente che popolare. Quello di “influenza/popolarità” è uno dei miei pensieri lunghi più ricorrenti. Considero i due termini spesso antitetici, nel senso che non è detto che l’uno sia condizione di esistenza dell’altro, e viceversa. Essere popolari non significa essere influenti e anche il contrario. Vi sono scrittori e artisti assai poco popolari che hanno avuto una grandissima influenza e ve ne sono una pletora di popolarissimi (in vita), presto dimenticati. 

Smith nega questa condizione o la supera: nel suo caso la popolarità è circoscritta a un ambito preciso, che è però un ambito estremamente influente. Se un cantante è popolare, raggiunge un pubblico vastissimo ma non è detto che la sua opera aggiunga qualcosa al discorso musicale. Se invece un economista è popolare nel suo ambito e quest’ambito è capace di influire a sua volta sulla vita di miliardi di persone si crea una condizione particolare: la popolarità e influenza in un ambito scala al livello numerico superiore, e cioè l’influenza assume la forza dell’ambito entro il quale si espande la popolarità. In altri termini: Smith è influente tutt’oggi perché è popolare in un ambito che è influente a sua volta (quello degli economisti che poi plasmano le politiche economiche dei governi più potenti al mondo), senza essere né popolare né influente nell’ambito allargato su cui influisce. È molto probabile che percentualmente poche persone sappiano chi è Adam Smith, né tantomeno sappiano che le scelte di politica economica dei loro governi siano spesso ispirate proprio da Smith, travisato o meno, manipolato o meno.

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