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Avevo appena fallito il test di ingresso ad architettura a Venezia. Mi rimaneva solo Ferrara, qualche settimana dopo. Ero comprensibilmente impensierito anche perché – come i manuali e buon senso insegnano – non avevo un piano B. O era molto vago, tipo iscrivermi per un anno a lettere e filosofia e poi ritentare l’anno dopo. Il fallimento faceva male anche perché molto probabilmente era attribuibile a svariate imprecisioni nel test: fra tutte però continuavo a ripensare a una. Alla domanda “Quale figura si ottiene sezionando una sfera?” (sono passati 30 anni e ancora la ricordo) risposi “un’ellisse”. Un’ellisse, capito? Ero pure fiero di quella risposta perché la domanda era così semplice che la risposta non poteva esserlo altrettanto. 

Quando pensi di essere furbo generalmente sei un idiota.

Ovviamente era la risposta sbagliata: sezionando una sfera si ottiene una circonferenza. Puoi metterla come vuoi, tagliarla in orizzontale, in verticale, in obliquo, sempre una circonferenza ottieni. Ma io l’avevo visualizzata e in prospettiva la figura che si ottiene è proprio un’ellisse. Una circonferenza in prospettiva è un’ellisse, che non è la figura che si ottiene sezionando una sfera, ormai credo sia chiaro.

Insomma, me ne stavo romantico e affranto (romantico nel senso del romanticismo tedesco, malinconico e meditabondo e inconsolabile) e mio padre mi vide e mi chiese che pensieri avevo. Glielo dissi e mi rispose “Devi crederci”. Qualche settimana dopo affrontai il test a Ferrara con la determinazione ingiustificabile del condannato a morte che spera in una grazia sul limitare della sua esistenza terrena e passai. Anzi, feci pure una prova brillante.

La storia però non è nemmeno questa. Quello di cui volevo parlare è il fatto che anni dopo ricordai a mio padre quello che mi disse, menzionando quanto mi avessero aiutato quelle poche parole e lui mi rispose candidamente di non averne alcun ricordo. Insomma: uno dei punti nodali del nostro rapporto e lui manco se lo ricordava. 

Questa non è una critica nei suoi confronti, ci mancherebbe. A distanza di anni e con una certa lucidità posso anche dire che, se fosse stato un film, la sua battuta non sarebbe stata nemmeno delle più memorabili, anzi. Ma, appunto, non è quello che mi interessa dire. 

Quello su cui mi interessa indagare è che quello che ci sembra importantissimo lo è raramente nel Grande Schema delle Cose. Oppure che quello che diciamo o facciamo nelle interazioni umane può avere un significato per noi e tutt’altro significato per le altre persone coinvolte. Magari quella volta sono stato rude o poco disponibile con qualcuno e me ne dispiaccio ma quello non c’è rimasto male. Altre volte sono convinto di aver fatto un gesto molto gentile verso una persona, mentre a questa è sembrato normale o trascurabile. Le agende delle persone generalmente non coincidono e le sensibilità sono diverse. È meglio rendersi conto il prima possibile che le altre persone sono in primo luogo interessate a loro stesse più che a noi, quindi è statisticamente poco probabile che la loro attenzione nei nostri riguardi abbia la priorità rispetto all’attenzione verso se stesse. Ognuno ha come priorità se stesso ed è anche normale che sia così. 

Ho ripensato a questa faccenda della relatività dell’importanza quando sono diventato padre e, contemporaneamente, educatore dei miei figli. Quando si assume questo ruolo ci si sente investiti della responsabilità di ciò che si dice fino al punto di mitizzarla un po’ troppo. Anche in questo frangente ho notato – specie ripensando alla storiella di me e mio padre – che la questione aveva contorni piuttosto ironici. In altre parole, era molto probabile che delle massime solenni che cesellavo in ispirati discorsi che riverberavano chiaramente il monologo shakespeariano di Marco Antonio ai miei figli non arrivasse proprio niente. Le mie parole uscivano dalla mia bocca e, alle loro orecchie, avevano la consistenza di un rumore bianco o della centrifuga della lavatrice. 

Era (è) invece molto più probabile che conserveranno altri ricordi di me, magari di una sfuriata, magari di una volta che mi hanno visto debole, chissà di cosa. Il fatto è che la vita non è sceneggiabile e, per quanto sia vero che la nostra esistenza in buona misura ce la scriviamo in testa ogni giorno, non possiamo farlo con quella degli altri. 

Le interazioni umane sono il risultato di uno scontro più o meno potente di sceneggiature diverse, scritte da persone diverse, in gran numero convinte che le persone con cui hanno un rapporto seguano il copione che hanno scritto loro, mentre ognuna segue un suo copione. A volte nemmeno chiaro nella sua interezza agli stessi sceneggiatori.

Anni fa c’era una serie TV molto bella, per molti aspetti La Serie che ha fondato l’era delle grandi produzioni seriali, che ormai hanno superato in budget e qualità anche i film. Si chiamava Lost e aveva una trama complicatissima e piena di personaggi. Durò per sei stagioni per un totale di 114 episodi. C’erano interi forum e gruppi di discussione che analizzavano ogni settimana la nuova puntata. Tutti erano certi della coerenza della trama e anzi, più questa si avvitava su se stessa e si dimostrava incoerente, più sostenevano che era perfettamente lineare, che era tutto chiarissimo.

Qualche tempo dopo la sua fine, lessi un’intervista a uno sceneggiatore amico di uno degli autori di Lost. Raccontava che un giorno era con lui e allora gli aveva fatto i complimenti per il lavoro del team e poi gli chiese: “Come farete a risolvere tutte queste cose?” E lui mi guarda e dice: “Non lo faremo.” E io: “Cosa intendi con ‘non lo faremo’?” Lui dice: “Semplicemente pensiamo alla cosa più strana e disturbante e la scriviamo, ma non la risolveremo mai.”

Questa storia sulla sceneggiatura di Lost mi è tornata in mente in relazione a ciò che è importante e a quanto pensiamo che la sceneggiatura esistenziale che abbiamo in mente sia quella di un film corale, solo che gli altri protagonisti e comparse non hanno lo stesso copione. Capita quindi che il film della nostra vita sia il film di tutte le vite con cui entriamo in contatto messe insieme, mescolate e modificate, un po’ come i colori della tavolozza del pittore mutano quando vengono diluiti, stemperati, miscelati insieme.

Per quanto siamo protagonisti della nostra vita, siamo allo stesso tempo le comparse dei film altrui. 

Il fatto è insomma che non abbiamo il controllo su come veniamo percepiti dagli altri. A volte non sappiamo interpretare nemmeno noi stessi, cosa pretendiamo in fondo dagli altri?

La sintesi è che ciò che ci sembra importante, non è altrettanto importante per gli altri. 

A complicare ulteriormente le cose ci si mette Richard Schwartz. Confesso che fino a due giorni fa non sapevo chi fosse ma il titolo di una puntata di The Rich Roll Podcast ha attirato la mia attenzione. Si chiamava “The Multiplicity of the Mind” ed era un’intervista a questo psicoterapeuta e professore all’Harvard Medical School. 

Schwartz è l’inventore della teoria dell’Internal Family Systems: si tratta di un’interpretazione del Se come di un sistema non governato da un Io monolitico ma piuttosto da un teatro interiore in cui diverse rappresentazioni dell’Io dialogano fra di loro, influenzandosi, plagiandosi, incoraggiandosi e motivandosi, ricattandosi e quant’altro. Se ne deduce (e la cosa mi pare plausibile) che la sceneggiatura della nostra vita non solo non collima con quelle delle vite altrui, ma non è nemmeno del tutto governabile da noi stessi, perché a definirla non vi è un’autorità centrale (l’Io) ma l’Io e i suoi satelliti. Questa famiglia interna, insomma. Che possiamo controllare solo parzialmente e di cui non conosciamo né riconosciamo con precisione nemmeno tutti gli autori. La sceneggiatura della nostra vita – che all’inizio prevedeva solo la scrittura della parte del protagonista – deve insomma comprendere anche quella di altri co-protagonisti e pure di comparse e personaggi secondari che potremmo non conoscere nemmeno. È decisamente difficile scrivere una storia di cui si conosce (nemmeno troppo bene) solo il protagonista.

La constatazione della reale portata della nostra azione sulla nostra stessa vita può a questo punto condurre a due approdi possibili:

  • L’inanità (niente è pianificabile, quindi al diavolo tutto)
  • L’accettazione. 

Inutile specificare che la seconda mi pare più interessante, anche perché conserva un residuo di libero arbitrio. In particolare postula che, dato che si è contemporaneamente attori principali della nostra vita e comparse di quelle altrui, si debbano accogliere le diverse narrazioni, cercando di districarsi in mezzo. Adattando la propria sceneggiatura a quella altrui, constatando tra l’altro – per quanto appena detto sugli Internal Family Systems – che anche se vivessimo soli in una grotta dovremmo comunque fare i conti con quanto possiamo decidere autonomamente della nostra vita, condizionato però da quanto decidono le altre manifestazioni del nostro io. 

Quando la mia vita prende una piega poco piacevole cerco di fare un esercizio di immaginazione: mi chiedo come la racconterebbe una commedia italiana di Monicelli o Germi. Ho sempre amato la capacità di quei favolosi raccontastorie di narrare anche le cose più atroci con un sorriso in volto. Quell’atteggiamento è un interessante amalgama di rinuncia (o accettazione, del genere “Le cose vanno così, cosa ci si può fare?”) e rivincita dell’acume intellettuale. Riuscire a fare dell’ironia in ogni circostanza è una dimostrazione della capacità della mente umana di contenere mille cose e i loro opposti, nel caso specifico la sconfitta e la vittoria: la vita sconfigge ma della vita si può anche sorridere. Una volta consideravo l’ironia un filtro o uno strumento piuttosto spuntato. Un sotterfugio patetico. Poi mi sono reso conto che esiste qualcosa che è totalmente privo di ironia: le religioni. Allora ho ricominciato ad apprezzarla. La religione inventa le storie più fantasiose per dare un ordine al mondo ma lo fa senza la leggerezza dell’ironia. Allora ho capito da che parte volevo stare: quella dell’ironia, senza dubbio. L’ironia, tra l’altro, ha anche la capacità di filtrare, ammorbidire, rendere tutto più accettabile o almeno meno sgradevole.

Non ho una soluzione, mi spiace. Il problema delle sceneggiature che non coincidono è alla base delle incomprensioni umane e della nostra stessa incapacità individuale di capire chi siamo e cosa vogliamo. Impossibile risolvere la questione in una pagina, impossibile forse pure in senso assoluto. 

Se non che ho avuto un’illuminazione dopo aver ascoltato il dottor Schwartz. Non avevo più voglia di sentir parlare, stavo correndo e allora ho cominciato ad ascoltare il concerto per pianoforte nr. 3 di Beethoven. A “riascoltare”, dovrei dire, visto che l’avrò ascoltato almeno 23 milioni di volte. 

Comunque: già dalle prime note le voci nella mia testa – quelle dell’Io che parlava con i suoi satelliti e gli altri membri della famiglia che secondo Schwartz (e concordo con lui) vivono dentro la mia mente e quella di tutti – si sono acquietate. Per un attimo mi sono preoccupato ma poi ho capito: 

Stavano tutte ascoltando il concerto per pianoforte nr. 3 di Beethoven. In silenzio, mettendo a tacere le loro comprensibili o meno rivendicazioni, ascoltavano rapite le note di Ludovico.

Allora ho compreso un’altra qualità di quella cosa inutile chiamata Arte: l’Arte racconta una storia che tutti possiamo capire. Oppure: l’Arte ha una voce che tutti udiamo come distinta e chiara e che mette a tacere ogni altra voce. 
E per Arte non intendo solo quella alta ma qualsiasi espressione umana, perché lo so cosa si può pensare delle mie parole: “non tutti capiscono l’Arte, anzi spesso è oscura”.

E allora non chiamiamola arte: diciamo che di fronte al sublime tutte le menti tacciono. Per me e altri il sublime è una pala del Trecento o un concerto per pianoforte di Beethoven, per altri un drago sputafuoco o un gol in una finale dei mondiali. 

Di cosa si tratta alla fine? Di storie, di sceneggiature molto più interessanti di quelle delle nostre vite. Sono altre vite, altre parabole esistenziali e servono a mettere in pausa per un po’ le nostre e a toglierci dal centro di quel palcoscenico immaginario. Per goderci lo spettacolo, finalmente.

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