Title

Giovinezza

Excerpt

Date

Giovinezza

Text

«Se a una certa età dovessi mai dire che la musica dei giovani è uno schifo, ti prego di abbattermi», dissi un giorno a un amico. Probabilmente l’ho detto a diversi amici. Invecchiando, non volevo diventare uno di quelli che smettono di sentire e di cercare di capire i nuovi linguaggi. Avevo ascoltato troppi vecchi lamentarsi di non capire più i giovani e non volevo diventare proprio quel tipo di vecchio.

Per altri versi, volevo (e voglio tutt’ora) conservare una sana curiosità verso i nuovi linguaggi. Non pretendo di capirli, ma almeno ci provo. Se non li capisco, non li derubrico a rumore incoerente: semplicemente penso si tratti di un sistema di codici che non riesco a interpretare.

L’atteggiamento del «dove andremo a finire» mi ha sempre infastidito. Anche valutandolo solo dal punto di vista statistico — se avesse mai rivelato un andamento della civiltà tale da comprometterne le fondamenta — avrebbe dovuto decretare la fine del genere umano da millenni.

Del resto, l’avversione per i nuovi strumenti (e i nuovi linguaggi) è antica: Platone raccontava dell’avversione di Seneca per la scrittura, che secondo lui avrebbe compromesso la memoria dell’umanità, affidandola ai testi scritti invece che alla propria capacità mnemonica.

Come amo ripetere, anche le persone intelligenti a volte dicono cose poco intelligenti. E l’idea di trovare Seneca un po’ meno intelligente di se stesso è irresistibile.

Il fatto è che la giovinezza, nella forma della gioventù, è — a dir poco — un punto nodale della vita di ognuno di noi. A ben pensarci, è così importante da diventare un sistema di riferimento, a tratti talmente centrale da essere l’unico.

Allontanando il pensiero di trasformarmi in quei vecchi malmostosi, cercavo (cerco) di non diventare schiavo della mia stessa giovinezza, o almeno di non restare bloccato a quell’età, che prende il nome di gioventù, cioè l’età del massimo splendore.

Non voglio misurare ogni cosa mi accada, ogni esperienza, ogni espressione dell’intelletto umano e ogni manifestazione dei tempi rispetto a quanto mi accadde ormai decenni fa.

Perché poi la giovinezza se ne sta lì, in mezzo alla vita, come un monolite inscalfibile? È una fase dell’esistenza che, come mani invisibili e forti, ci ha modellati. Eravamo creta informe, pronta a ricevere una forma: l’infanzia, il distacco dai genitori, la ricerca dell’indipendenza ci hanno dato un’impronta.

Cercavamo la nostra posizione, e le esperienze maturate in quegli anni hanno impresso una direzione. Sono state onde che hanno deviato o assecondato la via della nostra prua. Abbiamo iniziato a solcare mari sconosciuti e, lungo la navigazione, abbiamo conosciuto persone e cose e in alcune di esse ci siamo riconosciuti.

Quel viaggio ha deciso come saremmo stati, o ha mostrato come eravamo.

Non parlo di viaggio a caso: esso comporta una direzione e una visione, un senso e un sistema di navigazione. Abbiamo imparato allora come galleggiare, cosa ci dava fiducia e ci rifletteva. Avevamo bisogno di trovare uno specchio che ci restituisse un’immagine: quello specchio erano la musica, i libri, i film. Linguaggi di mondi che magicamente riuscivamo a comprendere.

Siamo restati legati a quelle prospettive, a quegli orizzonti, a quelle esperienze di comprensione e di decifrazione.

Nella giovinezza ci parve di capire le cose, per la prima volta. Non sapevamo che dopo non avremmo più capito niente.

Di quegli anni conserviamo la nostalgia. Non un sentimento legato a cose precise, ma piuttosto a sensazioni. La nostalgia della comprensione dell’esistenza e della ricchezza di prospettive.

C’è qualcosa di profondamente rivelatore nel modo in cui riferiamo il nostro sistema di valori alla giovinezza. Non è solo una questione anagrafica: è un intreccio di prospettive, di possibilità, di quella particolare forma di libertà che deriva dal non avere ancora stabilito confini definitivi.

È come se la giovinezza fosse non tanto un’età quanto uno stato mentale che permette di vedere il mondo come una tela bianca, invece che come un dipinto finito.

Ci penso spesso quando cerco di interpretare il pensiero dei conservatori, di quelli che bramano un ritorno a un passato mitico mai esistito.

È curioso desiderare la ripresa di una dimensione che non è mai esistita, o che è esistita in tutt’altra forma, e di cui è sopravvissuto solo un ricordo emendato e dorato, fatto di eventi mai accaduti o, comunque, non con quelle modalità e quei tratti.

Allora ho capito che i conservatori non vogliono semplicemente riportare indietro l’orologio della storia: vogliono tornare giovani. Vogliono riavere la prospettiva sgombra che avevano a quella età. Non bramano che rivivano quegli anni, ma piuttosto che riviva loro stessi e la loro giovinezza.

Questa visione del mondo come possibilità illimitata è ciò che rende la giovinezza così attraente, soprattutto per chi l’ha lasciata alle spalle. La nostalgia dei conservatori per un passato idealizzato nasconde un desiderio più sottile e personale: non è tanto il desiderio di riportare indietro il tempo, quanto quello di riavere quella prospettiva aperta, quella capacità di vedere il mondo come possibilità anziché come limite.

È un paradosso interessante: chi vuole conservare, in realtà, vuole tornare a quella sensazione di potenziale illimitato che caratterizza la giovinezza.

Del resto, si può conservare — eventualmente — solo il presente. Conservare inteso come atto di restaurazione del passato è l’equivalente della riesumazione di un cadavere.

Mi è capitato, nel frattempo, di sentire un’intervista a Slavoj Žižek. Parlando di tutt’altro (lui parla contemporaneamente di 320 cose, ha una capacità funambolica di sostenere svariati discorsi paralleli), ha detto questa cosa:

«Per me è successo tutto tra il ’60 e il ‘70, in quel periodo sono successe le cose più interessanti, oggi viviamo ancora l’eco di quegli anni.»

Ho annuito. Poi mi sono chiesto se alla fine non fossi diventato proprio quel vecchio malmostoso che il mio amico avrebbe dovuto abbattere.

Eppure non posso negare che l’arte, le battaglie civili e, in genere, la cultura nata in quegli anni abbiano tutt’ora una potenza e un riverbero che sembra non diminuire. Non intendo che siano intensi come allora: intendo che ancora propagano onde, e sono ancora un sistema di riferimento imprescindibile.

Ho capito allora che Žižek suggeriva una lettura diversa: non tanto un elogio nostalgico del passato, quanto una critica implicita all’incapacità del presente di generare trasformazioni altrettanto fondanti. Ancora oggi quella cultura — che diversi critici considerano fondamentale per la contemporaneità, grazie alla concomitanza di molteplici condizioni sociali e alla loro rapidità — è capace di essere un parametro rispetto al quale si misura la bontà della cultura corrente, proprio perché ancora vibra vitale. Parlo dei film, dei libri, della musica nati in quegli anni. Parlo della fondazione di una cultura che resta viva perché fu fondativa e non si concluse. Gli echi di cui parla Žižek sono i suoi movimenti: sono la ricerca di una definizione che ancora non si è acquietata.

La sua affermazione potrebbe sembrare problematica, perché sembra confermare una visione conservatrice — il famoso e infame «era meglio prima» — ma in realtà coglie un punto fondamentale: quegli anni furono rivoluzionari non perché migliori, ma perché fondativi.

La cultura che emerse in quel periodo non si limitò a modificare l’esistente o a ergersi sul suo terreno: creò nuove fondamenta, ancora oggi solide nonostante i tentativi di erosione. Fu un momento di rottura genuina, di creazione autentica, non di semplice evoluzione o adattamento.

Esiste una verità essenziale sulla natura del cambiamento culturale: una cultura veramente potente deve essere autofondante. Non può limitarsi a costruire su ciò che già esiste, se non forse all’inizio e per contrasto. La forza della cultura giovanile degli anni ’60 e ’70 fu proprio questa: la capacità di creare nuovi linguaggi, nuove forme di espressione, nuovi modi di pensare che non derivavano da quelli precedenti. Era una cultura che non chiedeva permesso, che non cercava legittimazione nel passato, ma che si autorizzava da sé attraverso la forza delle proprie idee e la genuinità della propria espressione.

Nella semplificazione della lettura del mondo si potrebbe pensare che lo scontro avvenga fra due visioni antitetiche: una conservatrice e una progressista, una nostalgica e una ottimista. In verità, a opporsi sono anche i linguaggi, non solo le prospettive. Queste visioni del mondo hanno anche linguaggi diversi. Linguaggi che smettono di comunicare tra loro.

L’incomprensione genera attrito, e l’attrito porta a un circolo vizioso: prima il ridimensionamento attraverso la retorica del «si stava meglio prima», poi l’attacco frontale per silenziare le voci del cambiamento. È un processo che si ripete ciclicamente, ogni volta che una nuova generazione cerca di affermare la propria visione del mondo.

Vi è anche un paradosso: questi linguaggi diversi non dovrebbero comunicare, eppure comunicano — attraverso l’incomunicabilità stessa (anche non comunicare è una forma di comunicazione, o quantomeno porta alla constatazione che non vi è comunicazione.)

Il conflitto generazionale, insomma, non è tanto un conflitto di valori quanto un conflitto di linguaggi. Ogni generazione sviluppa i propri codici, le proprie forme di espressione, i propri modi di interpretare e rappresentare la realtà. Questi linguaggi non sono semplicemente diversi: sono spesso mutuamente incomprensibili, non tanto per una questione di vocabolario quanto per i mondi che creano attraverso il racconto delle proprie storie.

L’incomunicabilità, allora, non diventa un fallimento, ma un indicatore prezioso delle trasformazioni culturali in atto.

La vera rivoluzione culturale non sta nel rifiutare il passato, ma nel creare nuovi linguaggi capaci di esprimere il presente in modo autentico, senza necessariamente derivare da ciò che è venuto prima.

È in questa capacità di creazione autonoma che risiede il vero valore della giovinezza: non come età anagrafica, ma come stato mentale capace di vedere e creare possibilità nuove.

Questa comprensione conduce a una conclusione importante: il valore della giovinezza sta nella sua capacità di reinventare il futuro. È questa potenzialità rivoluzionaria che la rende tanto preziosa e, allo stesso tempo, tanto temuta da chi vorrebbe restaurare un passato in cui esisteva una giovinezza mai esistita.

La giovinezza evocata è, semmai, quella che cancella un futuro che è, oggi, il presente. Le forze conservatrici non hanno cittadinanza nella visione di quella giovinezza, perché essa ha senso solo rinnovando incessantemente le prospettive, reinventandosi in continuazione.

La cultura rivoluzionaria di quegli anni del secolo scorso è ancora vitale perché non ha mai assunto una forma precisa: non ha confini né limiti, ma ha uno spirito, che è ancora vivo. Genera ancora possibilità, come la giovinezza.

L’età adulta e conservatrice vede il futuro come conservazione; quella giovane, come possibilità. Da una parte vi è chi brama un ritorno allo stato mentale della giovinezza perché non riesce ad accettare che il tempo cambia e che l’unica soluzione è cambiare con esso: nel passato il tempo era un insieme di possibilità; nel presente, una manciata di opzioni. Nel passato era un paesaggio sgombro; nel presente — che è il futuro realizzatosi, alla fine — è un insieme di scelte obbligate.

Il presente opera nella scarsità delle opzioni, mentre il passato sposta il presente al futuro e lo carica di aspettative e potenzialità.

Ogni cultura genera un linguaggio, e ogni nuovo linguaggio illude — o forse conferma — che esista la possibilità concreta di immaginare un futuro diverso.

Il linguaggio, del resto, genera mondi.

Altri articoli

Colla

Perché è diventata uno strumento di protesta?

Noia

È il terreno su cui nasce la pianta dell’intuizione

Sull’educazione

Vecchi e nuovi modi di educare

IT