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Esperienza

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Esperienza

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Un mio caro amico ha fatto un bellissimo viaggio: lui e la madre sono andati per qualche giorno in Francia a mangiare. Detta così sembra una variante esotica di “Esco a mangiare qualcosa” ma in realtà si tratta d’altro. Lo scopo era mangiare bene, molto bene. Del tipo “Stelle Michelin-bene”. 

Era un viaggio fra appassionati di cucina con uno scopo preciso, e cioè vivere quelle che il marketing chiama da tempo – specie quando non sa come altrimenti definirle – “Esperienze”. Non si va a mangiare, si va “a fare un’esperienza culinaria”. 

Per documentarla e farmi anche provare un po’ d’invidia, ogni pasto – pranzo e cena, son stato dispensato dalle colazioni – era documentato minuziosamente con le foto di ogni portata. Le foto mi venivano poi girate su Whatsapp. Dell’esperienza (lato mio – come dicono a Milano) posso dire qualche cosa: 

  1. Ero sinceramente felice per loro e non invidioso
  2. Trovavo sempre meno differenza fra le portate che vedevo fotografate e delle composizioni astratte (bene o male? Non lo so, cerco di spiegarlo poi)
  3. Man mano che l’elenco dei ristoranti si allungava, meno mi pareva opportuno chiedere quanto costassero. A un certo punto capisci quanto costano: molto. E la smetti di chiedere.

Specie riguardo all’ultimo punto, è evidente che oltre un certo limite la divaricazione fra ragionevolezza del prezzo e controvalore della merce si accentua al punto da essere definita da curve divergenti e senza rapporto fra di loro. Ma appunto, non mangi: fai l’esperienza del cibarti, o fai un’esperienza artistica in cui mangi le opere d’arte (punto 2).

Non è un dettaglio concettualmente trascurabile. Di un’opera d’arte si acquista la presenza materiale mentre in questo particolare tipo di opera, la presenza fisica è distrutta all’atto della contemplazione dell’opera stessa, o meglio ancora: non si può contemplare e vivere questa esperienza artistica se non distruggendola. Dell’esperienza, in altre parole, resta solo il ricordo. Ma si paga per l’esperienza, si diceva.

I ristoranti costosi sono sempre esistiti, non è di certo un’invenzione recente. Quella che è più recente (degli ultimi 20 anni almeno) è la sofisticazione dell’impiattamento. I grandi o le grandi chef non cucinano più, parrebbe, o meglio: lo fanno, facendo contemporaneamente arte.

Non saprei dire se a un certo punto l’Alta Cucina sia arrivata a un tale stadio evolutivo abitato solo da persone (chef) dotate di una tale maestria tecnica da potersi distinguere solo per quella artistica ma è un dato di fatto: a un certo livello ti mangi un Rothko, o un Tancredi o un Vedova. O almeno mangi qualcosa che ci assomiglia, che lo ricorda o che ti fa inequivocabilmente capire che lo chef conosce molto bene l’arte contemporanea. 

Dicevo: probabilmente si tratta di un modo adottato in maniera più o meno consapevole dai grandi chef per esprimere ancora meglio la propria artistica singolarità e per distinguersi da questo o quel collega. Per farti vivere un’esperienza e non per darti, semplicemente, da mangiare. Facendoti nel frattempo pagare in proporzione.

“Esperienza” viene da “sperimentare” e ha una componente soggettiva preponderante. L’esperienza è sempre individuale e la sottigliezza dei tempi moderni (e degli chef o dei marketer moderni) è che l’hanno elevata a bene di consumo, per quanto dotato di una soglia di accesso elevata. 

I beni di consumo hanno invece una componente ontologica molto forte: un’auto è un’auto, una mozzarella è una mozzarella. Lo spazio di manovra nella dimensione ontologica è piuttosto limitato: quella è la natura ontologica delle cose, bisogna trovare altre leve (altri modi per dare un valore economico a qualcosa, e farselo corrispondere) e uno è, appunto, elevarlo a esperienza, cioè espandere la natura ontologica del bene in quella esperienziale, spostandola dal piano oggettivo a quello soggettivo.

La soggettività, come dice la parola stessa, è un’espressione individuale, è una lettura singolare e intima della realtà. Per loro natura le esperienze sono diverse tante quante sono le persone che le vivono. 

L’arte, in questo senso, è un mezzo più che un fine per vendere qualcosa. Non è un modo d’espressione ma una modalità di vendita, senza con questo dire che gli chef non abbiano inclinazioni artistiche. Ce le hanno – chi più, chi meno – ma è innegabile che poco c’entrino con la cucina. Oppure, vediamola così: puoi far da mangiare infinitamente bene ma il livello superiore all’infinitamente bene è l’artistico. “Artistico”, non “l’arte”, si badi.

L’esperienza è insomma la merce di scambio di una società che non ha realmente più bisogno di niente. Non a caso – e sempre restando nell’ambito gastronomico più che culinario – quando hai fame vai in trattoria, quando vuoi fare un’esperienza vai in un ristorante stellato. 

Come sempre non mi interessa alcun giudizio morale: come ripeto spesso, non ci sono modi e modalità giuste o sbagliate ma ci sono solo modalità, ci sono meccanismi attuativi, processi che fanno funzionare le cose e l’esperienza (mediata) che ho dei ristoranti stellati mi fa cogliere il filo rosso che li lega: c’entrano più con l’arte che con la cucina. E va benissimo così.

Un libro (che c’entra)

Concludo con una scoperta che ho fatto leggendo il bellissimo Make Something Wonderful di Steve Jobs. Non si tratta proprio di una scoperta, quanto di una più precisa messa a fuoco di un dettaglio biografico di Jobs che conoscevo: al college che frequentò (e che poi abbandonò), Jobs seguì un corso di calligrafia. Non di scrittura: di calligrafia. A questa esperienza – lo ripetè lui stesso più volte – fu spinto da un istinto naturale quasi inconscio: non vi erano molti altri corsi che lo interessassero ma questo, senza un motivo particolare, lo interessò. 

Questo dettaglio è importante perché la conoscenza della calligrafia e della tipografia divenne centrale nello sviluppo del sistema operativo Macintosh: il fatto che da allora i computer Apple siano per antonomasia quelli dei creativi e degli artisti non è insomma questione di moda (effimera) ma di sostanza. In quanto strumenti, venivano scelti poiché più affini alla sensibilità di chi li usava. 

Il dettaglio che non conoscevo o che non avevo mai letto nella sua reale portata era questo: Jobs capì che la tecnologia e le arti liberali potevano convivere e anzi trarre benefici l’una dalle altre. I computer in particolare non appartenevano solo al dominio della tecnica e del sapere pratico e fattuale ma potevano avere una natura artistica, o permettere l’espressione artistica.

Facendolo – nella cura del design e nelle modalità di funzionamento dei prodotti Apple – Jobs democratizzò l’arte e la rese più comune, meno intimorente. Lo fece in modo così magistrale dal non farsi nemmeno scoprire nel mentre: i suoi prodotti non dichiaravano alcun intento artistico né si mettevano quell’abito. Erano e sono più curati esteticamente e funzionalmente ma restano oggetti con uno scopo e non – almeno non subito e principalmente – delle esperienze.

C’era insomma qualcosa di genuino e rivoluzionario – di certo inedito – in quel che fece, tra l’altro, come dicevo, rendendo più comuni l’arte e la creatività, e non più esclusive.

Ed è curioso che a farlo fu chi verrà ricordato per i prodotti costosi e di certo non economici che ha creato. Forse perché era ben consapevole del valore rivoluzionario dell’arte e perché vendeva cose, non esperienze.

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