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Rappresentazione 

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Rappresentazione 

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30 anni fa andai a New York per la prima volta. Ricordo che quando scesi dall’aereo mi meravigliai che nessuno mi avesse ancora sparato addosso. Ero sul suolo statunitense da pochi minuti eppure non era ancora successo quello che – per chi avesse visto almeno una serie televisiva americana in tutta la sua vita – era scontato: negli USA si sparano tutti. O almeno quella era l’immagine che se ne aveva, basandosi sul cinema e le storie che da là arrivavano.

Scoprii il mattino dopo che erano altre le cose che mi stupivano di quel luogo, e sarebbe stato difficile prevederle: ricordo in particolare la dimensione inusitata (eccessiva) dei cornetti e i secchi di caffè con cui molti newyorkesi giravano per strada. Dico “secchi” anche se erano comuni bicchieri di carta, ma di dimensioni pantagrueliche. 

Non voglio comunque parlare delle mie impressioni sugli USA o su New York (due cose che i puristi ci tengono a distinguere, perché New York è la meno americana delle città ecc. ecc.) quanto piuttosto dell’effetto che i racconti, i film, la musica di quel paese o di quella città avevano costruito nella mia mente. 

Il racconto della realtà non è uguale alla realtà, così come la mappa non è il territorio.

Si dice che la letteratura amplifichi ed estenda la vita perché permette di vivere vite altrui. Le parole, le immagini e, in genere, le storie, sono un modo mediato per dare un’idea di qualcosa. Credendo che mi avrebbero sparato non appena sceso dall’aereo, in fondo credevo ingenuamente che la rappresentazione di una città fosse la città stessa. Che la descrizione dei suoi abitanti coincidesse con gli abitanti stessi.

Il racconto ha un’esigenza di sintesi: uno scrittore non può dire tutto, così come un regista si concentra su una storia o un fotografo sceglie l’inquadratura operando l’esclusione di tutto il resto (ciò che non è nel fotogramma è altrettanto importante di ciò che vi è, cioè la sua assenza dà sostanza a ciò che è visibile, perché, se fosse altrettanto visibile, toglierebbe potenza a ciò che si vuole significare, diluendo e stemperando il messaggio).

Del resto rappresentare significa “rendere nuovamente presente”, rievocando attraverso immagini o parole ciò che non è materialmente di fronte agli occhi dell’osservatore. La rappresentazione contiene in sé la sintesi della realtà, e, come tale, esclude o pone in secondo piano i dettagli. In altre parole, la realtà è tutto, la sua rappresentazione è l’esito di un’operazione di sintesi e depurazione.

In questi termini, la rappresentazione parrebbe una forma spuria di realtà, una sua specie di sottoprodotto. Del resto è naturale pensare che il tutto abbia più valore della parte, per di più se questa è selezionata, soggettiva, puntuale ed escludente. Si potrebbe altrimenti dire che la rappresentazione è la realtà filtrata dalla mente, ridotta ai suoi elementi salienti secondo il vaglio della mente. La realtà è un oggetto ontologico, la rappresentazione è un oggetto mentale. La realtà esiste indipendentemente dalla mente, mentre la rappresentazione ha bisogno della mente per esistere. 

Una domanda senza risposta

Queste considerazioni mi sono tornate alla mente visitando la straordinaria mostra Eveningside di

Gregory Crewdsonad Arles, che tra l’altro credo sia la stessa che era a Torino.

Crewdson è famoso per le sue fotografie stampate in grande formato e ricchissime di dettagli. Per far meglio capire di quale universo visivo si parla, si potrebbe descriverlo come l’Hopper della fotografia, anche se i fotografi si innervosiscono quando si dice delle loro foto che sembrano quadri, e i pittori viceversa. Però è anche il modo più immediato per descrivere l’immaginario a cui Crewdson esplicitamente si riferisce: quello di un’America di provincia, decadente, di piccoli centri urbani che si sviluppano lungo strade polverose e hanno la forma di case di legno abitate da solitudini disperate.

Ogni sua foto è una gioia per gli occhi per l’accuratezza maniacale della costruzione, e molto spesso si tratta di veri e propri set preparati come se vi si dovesse girare un film. Solo che lui scatta solo una fotografia. E dentro ci sono attori che interpretano persone normali colte in un istante meditativo o disperato della loro vita. 

Gregory Crewdson, Untitled, 2003 (Unreleased Beneath the Roses #4,)

Quello che voglio dire è che la fotografia di Crewdson rappresenta evidentemente una sua idea della condizione umana e non solo: rappresenta anche una precisa incarnazione dell’immagine dell’entroterra statunitense e di una parte non marginale di quel paesaggio geografico, urbano e umano. Racconta, in altre parole, delle storie americane che usano parole universali: quelle delle immagini. 

Allora mi sono chiesto se, al di là dell’evidente citazione hopperiana, le sue foto rappresentino un’idea di USA o se creino in chi le osserva l’idea che quelli ritratti siano gli USA. In altre parole: 

Cosa è reale? La realtà o la sua rappresentazione? 

Non è un quesito marginale perché, come dicevo prima, la rappresentazione può essere anche creazione, ossia – secondo certe modalità – la rappresentazione del reale potrebbe anche non riferirsi a un reale esistente ma crearlo, dal nulla. 

The Lounge, 2021-2022

È probabile che l’idea di USA di Crewdson sia plausibile: in fondo la conosciamo ed esiste materialmente, eppure la rappresentazione che lui ne dà aggiunge altri livelli di lettura. Diciamo che la rende metafisica perché sì, le sue foto hanno forti elementi metafisici: si riferiscono a una realtà fisica e reale ma le sovrappongono un velo che aggiunge significati. Sono, insomma, metafotografie.

La domanda non ha quindi una risposta precisa e dirimente o entrambe le tesi sono verificate: 

  • Crewdson rappresenta l’America reale
  • Crewdson crea un’idea d’America e la rende reale attraverso la fotografia. 

In definitiva usa un linguaggio visivo per raccontare storie di solitudine, morte, disperazione e abbandono. E raccontando storie, crea nuovi mondi, in cui i luoghi e le persone sono private della loro individualità e diventano universali. Quello che si vede rappresentato è, quindi, un simulacro di qualcosa di più grande che, come tale, contiene anche le solitudini dell’individualità.

In altri termini, il paradosso è che la rappresentazione – attraverso il racconto – può creare la realtà, generando un cortocircuito fra due cose distinte, sconvolgendo le gerarchie: la rappresentazione insomma non ha sempre bisogno di derivare da una realtà per esistere ma può anzi creare una realtà, plausibile o meno.

Perché l’umanità rappresenta la realtà invece di guardarla e basta? La risposta più semplice è “perché può farlo” ma è chiaro che il motivo è un po’ più profondo.

La rappresentazione richiede un processo di elaborazione e ne restituisce una lettura. È l’esito di un giudizio, di una scelta: racconta cose, non ne racconta altre, seleziona, filtra, include ed esclude. 

Perché però non raccontare tutto e basta? Perché il tutto è incomprensibile e non rappresentabile e, se lo fosse, sarebbe una copia esatta del reale. Non avrebbe senso, perché non aggiungerebbe alcun livello alla comprensione del reale, ammesso che esista una qualche spiegazione. 

Una copia di un originale non aggiunge significato all’originale e non fa che duplicarne l’essenza. Una copia di un originale – una copia della realtà, nel caso specifico – aggiunge solo un caos uguale al caos esistente. 

Ecco perché esiste la rappresentazione: per ordinare il reale e dargli una forma che non solo è più sintetica e allusiva, ma è anche una copia diversa dell’originale, cioè un nuovo originale.

Per tornare alla domanda iniziale: la rappresentazione non è (solo) una sintesi della realtà ma è anche e soprattutto una nuova realtà. Insomma: la realtà è un dato, la sua rappresentazione è un generato.

Crewdson e l’arte in genere allora cosa fanno? Creano una narrazione alternativa o rappresentano con precisione una realtà esistente? Forse entrambe le cose: il suo punto di partenza è sempre la realtà ma l’esito è altrove e non è più solo radicato nella realtà. La rappresenta ma non è la stessa cosa. 

Visitando i luoghi di Crewdson non si trovano quelle stesse persone ma altre molto simili. Non c’è quindi sovrapposizione di realtà e suo racconto: sono due cose distinte, per quanto il racconto sia costruito con immagini che alludono alla realtà.

Da una parte c’è insomma la realtà ontologica (del reale) e dall’altra quella logica (del racconto). Oppure: da una parte c’è il tutto e dall’altra la sintesi, opera della logica. O infine: da una parte il tutto, e dall’altra il logos, cioè la parola. Non a caso in principio c’era il verbo, come dice il Vangelo di Giovanni. 

E alla citazione biblica mi fermo.

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