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Guardavo il canale che scorreva fermo – come tutti i canali di Venezia – fuori dalla porta d’acqua di uno spazio che per la Biennale di Architettura è il padiglione della Lituania. Mi pare fosse quello della Lituania, dovrei controllare ma in questo frangente non conta molto. 

Cos’era una volta quel luogo? Un’officina di qualche tipo, una falegnameria forse. Fatto sta che, forse proprio per la sua natura e le sue necessità, aveva una porta d’acqua, cioè quell’apertura che alcuni edifici di Venezia hanno e che si apre sui canali, per caricare e scaricare cose e persone dalla barca attraccata.

Questo per quanto concerne la descrizione del luogo, o meglio, di quello che dal luogo si vedeva: un brandello di canale e due prue di barche ormeggiate.

Dentro c’erano oggetti organici: tronchi e rami ritorti, privati della corteccia e segati e infissi in tavole di legno come braccia contorte che si levavano al cielo. Era un’installazione, in altre parole. 

Di queste cose mi chiedo sempre meno il significato: ho capito che è meglio ascoltarle più che comprenderle, è meglio osservarle più che giudicarle. Quello che fanno è invece molto più interessante: la loro incomprensibilità – come quella, per estensione – dell’arte contemporanea, produce uno spazio e si attua in un luogo. Non gli dà significato o, se ne ha uno, poco importa. Questo luogo creato è fisico, tangibile, esistente: io lo chiamo altrove.

L’altrove ha connotati molto precisi: è creato dall’arte, non ha necessariamente un significato, genera uno spazio fisico ed è quindi reale. Non è un altrove mentale e virtuale, non è un’illusione o una fantasia generata da una sostanza psicotropa o da un sogno da cui ci si è appena risvegliati. 

Le dimensioni dell’altrove sono reali ed esistono nella realtà, quella quotidiana, prosaica, noiosa, angosciante, giuliva o greve. Rispetto alla realtà reale hanno però una peculiarità: accelerano o rallentano il tempo e quindi sottostanno a un campo gravitazionale diverso. 

Mi capita di sperimentare l’altrove nei musei, nella musica, nell’osservazione dell’arte, a teatro, a volte guardando un film. Sottrarsi all’implacabilità del tempo reale è cosa assai difficile ma l’arte ci riesce sempre, quando è arte, s’intende. 

Del resto l’arte non è creata e non vive in questo tempo condiviso, non è misurabile con orologi e orbite celesti, è un’altra realtà nella realtà generale, o le sta a fianco o dentro.

Non importa molto: quello che conta è che vi si può stare al suo interno, si può decidere di esistervi per un tempo discreto per impulso o volontà estemporanee. Tutto ciò che chiede è di essere ascoltata e di accettare che il tempo sia una dimensione sospesa in quel regno, o forse non è nemmeno una dimensione poiché non scorre e quindi è immobile e infinito, o appare come tale. 

In questo altrove mi sento sempre bene. Non c’è comprensione, non c’è razionalità né bisogno di capire le cose. Che l’uomo possa generarlo è già confortante, che ogni volta l’arte possa rinnovare il prodigio dell’annullamento del tempo è esaltante.

Alla fine l’arte è uno squarcio sul futuro ed è un’espressione di intenzioni ed emozioni, quindi è una proiezione futura, è una scommessa, spesso vinta, almeno quando l’artista è più raffinato e sensibile e meglio vede attraverso quel varco.

L’opera d’arte è creata nel presente ma riguarda il futuro e lo porta nel presente, negando una realtà fisica, e cioè che non possano coesistere tempi diversi in un unico tempo. Il futuro non è simultaneo del presente e del passato. O lo è solo nell’arte, che fa accadere ciò che accadrà, ma adesso. 

Comprimendo il tempo e le sue dimensioni lo azzera o ne rende il suo svolgimento inutile: tutto può succedere contemporaneamente e se non esistono più un prima, un durante e un dopo, allora non esiste il tempo. 

I luoghi dell’altrove, dicevo, sono le gallerie d’arte, sono i musei, solo certe case e in genere gli spazi che accolgono cose inutili chiamate arte, come inutile è l’arte in genere. 

Eppure questi luoghi hanno una funzione, non sono affatto inutili: annullano il tempo, si diceva. Creano mondi diversi e reali che esistono all’interno della realtà. Bisogna saperli vedere e ascoltare, e in genere è più semplice farlo quanto più si zittiscono il giudizio e la razionalità, quanto meno ci si interroga sul cosa significhino e cosa vogliano dire. Non vogliono dire niente: esistono e basta.

Dalla porta d’acqua vedevo il canale. La superficie dell’acqua era ferma – i canali di Venezia, si diceva, scorrono fermi. È possibile scorrere e restare contemporaneamente fermi? Se il tempo non esiste, si sarà capito ormai, sì, è possibile. 

Nell’altrove succede così: l’altrove è a fianco, dentro, sopra o sotto il reale ma riesce ad annullare il tempo. 

Se lo si guarda e lo si ascolta senza voler capire e senza cercare spiegazioni e indizi, ti fa un dono. Negando il tempo ti regala tempo, perché quando si è in questo altrove si vive sia nel tempo oggettivo che in quello infinito e impossibile: quello che ha una sola dimensione, che non ha passatopresentefuturo e che dura per sempre.

L’arte ci dona tempo.

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