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We no longer know how to see

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We no longer know how to see

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Il tramonto è la parte del giorno con i colori più incredibili e forse innaturali. Eppure sono naturali, perché è la natura stessa e le leggi ottiche — altrettanto naturali — che li producono. Eppure se si cercano su Instagram hashtag come #sunset o #sunsetlovers si scopre che la palette di colori del tramonto copre i milioni di colori, con una predilezione per il vaniglia e il rosa. Ma un rosa unicorno, s’intenda bene, niente di tizianesco, non fosse mai. Si potrebbe imputare questo tripudio di colori lisergici e irreali all’abuso di filtri o droghe che stroncherebbero anche un cavallo ma invece la spiegazione credo che purtroppo sia più semplice e deprimente: non sappiamo più vedere.

La differenza fra guardare e vedere è apparentemente sottile ma in realtà sostanziale: la prima azione è quasi passiva (si potrebbe rendere anche con “rendersi conto di qualcosa”, cioè registrare una variazione nel campo visivo) mentre la seconda è ben più attiva. Per vedere ci vuole sforzo e capacità di indagine dei dettagli, ci vuole curiosità e spirito critico, attenzione e voglia e capacità di costruire altri oggetti visivi oltre quelli che si vedono (e si fotografano). È curioso che in una società visiva come quella contemporanea non si sappia in realtà vedere.

Le immagini sono prodotte a ritmi vertiginosi, scambiate, viste, ingoiate, trascurate, dimenticate, riciclate e presto rimpiazzate da altre. Al giorno d’oggi un essere umano medio vede in una giornata una quantità di immagini che un suo omologo di 100 anni fa vedeva in una vita intera. È naturale che il cervello (che nel frattempo non è aumentato di altrettante volte né in volume né in capacità di calcolo) non ce la faccia. L’unica cosa che gli resta da fare è semplificare, eliminare il dettaglio, azzerare la profondità.

In tempi di immagini 3D e di realtà virtuale e immersiva l’unica profondità che manca davvero alle immagini che ogni giorno vediamo è quella concettuale. Le composizioni che si vedono più frequentemente (e che, altrettanto frequentemente, sono copiate) hanno una qualità compositiva basilare e poverissima: soggetti centrali, colori vivaci o palette modaiole. La loro intercambiabilità è l’unica qualità che hanno, se di qualità si può parlare. Basta scartabellare fra i post più popolari di Instagram per accorgersi che è raro distinguere un fotografo da un altro.

Ok, Instagram non c’entra niente con la fotografia ma parliamo pur sempre di un social visivo, quindi è lecito anche parlare di qualità delle immagini. Le immagini più popolari su Instagram sono bellissime. Patinatissime. Leccatissime. E anche noiosissime e irreali. Come un tramonto rosa o vaniglia, che nessuno ha mai visto. Le palette dei colori sono le stesse e sono stagionali. Adesso vanno i colori freddi e cupi e domani quelli solari e rotondi e dopodomani i desaturati. Il problema però non è la post-produzione fotografica, che poi a ben vedere è nata un attimo dopo la fotografia stessa. Una fotografia non post-prodotta è già di per sé una post-produzione della realtà. Il problema è piuttosto che le foto sono post-prodotte tutte alla stessa maniera. Che siano quelle del figlio o di un paesaggio, i filtri che vengono applicati non sono degli strumenti interpretativi della realtà immaginata (anche se derivata da quella fenomenica) ma delle chiavi di accesso al consesso di produttori di immagini tutte uguali, uniformate, standard e noiose oltre ogni limite.

La mia non richiesta posizione sulla post-produzione è che sia, semplicemente, uno strumento interpretativo. La post-produzione serve a far emergere un velo di significato dell’immagine che non è stato colto in primo luogo dal sensore della camera.

Quello registra tutto, mentre la post-produzione esalta certi dettagli e ne mette in secondo piano altri, creando una gerarchia visiva e un ordine nella lettura dell’immagine.Se la post-produzione è unica, a prescindere dal soggetto e dal tipo di foto, è evidente che c’è un errore concettuale nella foto stessa che non è più una creazione intellettuale strutturata secondo una composizione gerarchica ma un prodotto omologato e inutile.

The most obvious demonstration of this assumption is travel photography. It is not even necessary to talk about of the quality of the average production of what is usually published (which, given the dizzying numbers, is trivial and insignificant). Just ask yourself a seemingly innocuous question: how many travel photos that you see around really tell something about the country or the place where they were taken? How many instead do only depict postcard locations (with psychotropic colors, of course) or their own authors? If I should base my opinion on the ground of what I normally see on Instagram I have to admit that very few photographers have intrigued me about the place they portray in their photos. I instead keep on seeing always the same images, similar to millions of others, that don’t add anything to human and geographical knowledge.

La maggior parte delle foto di viaggio, e soprattutto quelle più popolari, sono fatte per suscitare un superficiale stupore e un sottile compiacimento del senso estetico personale. Per qualche istante, perché poi si passa ad altro.< La fotografia di viaggio ai tempi di Instagram è sostanzialmente inutile. E, ancora una volta, si torna all’incapacità moderna ed endemica di vedere. Le cose e la realtà non sono più viste ma solo guardate. E poi post-prodotte in modo da assomigliare disperatamente al gusto imperante in quel momento. Facendolo si è persa però una percezione del tempo che è legata alla capacità di fermarsi e di ascoltare il luogo, tentando poi di raccontarlo in immagini. Oramai la corsa è all’accatto dello scatto più esteticamente gradevole. Come milioni di altri ma oh, senza sforzo alcuno.

Let’s make another, last effort. Let’s remove every filter from many travel photos. Let’s evaluate them for their composition quality, as they have been recorded by the camera sensor. The compositional poverty is even more evident from the almost total incapacity to dominate the constitutive elements of the image, solved in a hasty manner according to the most frequent current compositional rules (once again: central subjects, various stylistic elements, boredom). The result is that no personality of the author emerges and, more seriously, no point of view. Which in the case of photography is a vaguely central theme. But just vaguely.

Nor is contemporary photography anymore a listless recording of reality but a continual reiteration of other people’s points of view re-proposed without understanding its original intention but only the aesthetic patina.

Photography is a two-dimensional art with an incredible conceptual depth. We are losing — or have completely lost — this depth. And it is a mortal sin.

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