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Fondazione Prada, Milano

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Fondazione Prada, Milano

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Se Teresa Macrì de il Manifesto descrive la nuova Fondazione Pradaappena inaugurata a Milano “devastantemente bella” non puoi trattenerti dall’andarci. Non che ti abbia convinto il “devastantemente”, anzi. Che un giornale comunista la definisca così ti fa sorridere un po’ pensando all’evoluzione del comunismo fino a quest’oggi. Ma più oltre parla anche di “imma­gi­na­rie piazze dechi­ri­chiane“ e di ”intensità atti­tu­di­nale del tempo pre­sente, pol­lu­zioni e sine­ste­sie”. Qualsiasi cosa significhi (e so cosa sono le polluzioni), su De Chirico sono d’accordo: oggi fa così caldo e c’è così sole che gli spazi pubblici fra gli edifici nuovi e vecchi che compongono la Fondazione Prada sembrano metafisici.

Rem Koolhaas e OMA — che da anni lavorano con Prada —ha preso una ex-distilleria degli inizi del ‘900, c’ha aggiunto un paio di scatole abbastanza simili nelle dimensioni (una galleria vetrata, un parallelepipedo a due piani rivestito in schiuma di alluminio o alluminio schiumato o whatever, un cinema rivestito di specchi) e ha organizzato un insieme di spazi espositivi nei quali entri ed esci. Puoi anche entrare nelle aree all’aperto senza biglietto e andare a bere qualcosa al Bar Luce di Wes Anderson oppure girovagare dechirichianamente. Oppure comprare un biglietto a euro 10 ed entrare.

Ai piedi della torre dorata (rivestita in vera foglia d’oro) paghi, ti giri ed entri nel Podium. Mi pare si chiami così. Una sala vetrata su 3 lati dove ora c’è un’esposizione chiamata Serial Classic. Inusuale per un luogo in cui si espongono normalmente opere di arte contemporanea: c‘è una sessantina di riproduzioni di famose sculture greche poggiate su piedistalli in un bel travertino bruno tragicamente sollevato su spessori di plexiglass, affastellate in un caos che le rende illeggibili nella loro individualità. Ne osservi una e ne sbucano altre 4 alle sue spalle. Non riesci a isolarne un solo dettaglio perché sei distratto, non solo dalle altre, ma dai riflessi delle stesse su pannelli verticali in plexiglass — messi lì per pura cattiveria, è evidente — che a loro volta si riflettono sull’involucro in vetro della galleria, moltiplicandosi all’infinito e oltre, verso l’esterno.

Conosci Koolhaas e sai che devi aspettarti queste cose: invenzioni che non tentano nemmeno di risolvere un dettaglio ma che sono solo feroci esibizioni di una spietata intelligenza. Koolhaas si innamora di un’idea (esporre a diverse altezze), risolve sollevando le lastre del pavimento come zolle tettoniche e il come lo fa è, appunto, un’espressione di questa intelligenza che non risolve un dettaglio e lo espone invece ironicamente e poco umanamente: prendi la lastra di travertino bruno montata sull’honeycomb, la sollevi. Fine.

Effetto? Distraente, per essere gentili. Oppure, fai una prova: togli le statue, abbassi le luci, alza il volume e mettici dentro gente a ballare. Come discoteca funziona benissimo.

Il resto è molto meglio, però.

L’idea di diversi spazi espositivi — che poi deriva da quanto c’era a disposizione — funziona. Entri ed esci ed ogni volta che esci pulisci la mente con le immagini dell’esterno. Ti prepari a vedere qualcosa di diverso.

C’è arte più o meno contemporanea, più o meno moderna. Non conta poi molto. La prima volta vai a vedere la Fondazione in sé e di ciò che è esposto ti curi poco. Gli edifici esistenti sono recuperati modificandoli il meno possibile e lasciandoli quasi come li han trovati: impianti esposti, illuminazione poco invadente, muri intonacati e nemmeno dipinti. Un brutalismo molto smart, molto finto-povero. Ma alla fine funziona: fa un passo indietro rispetto alle opere esposte, come se ci si trovasse in uno spazio che non ha una destinazione ben definita, che prima era un’altra cosa, che ora è una galleria d’arte, domani chissà.

Il padiglione Nord è quello che, con i suoi setti intonacati e una sola opera esposta in ognuno, espone meglio: Pistoletto, Vezzoli, Cattelan, Baldessari, Hockney hanno il loro spazio e il loro respiro e non interferiscono fra di loro. Ne voglio vedere uno alla volta, grazie.

La cisterna è lo spazio più interessante: non in sé ma per le sue dimensioni e dislocazione. Parzialmente interrato e formato da 3 ambienti molto alti, è illuminato da finestre alte. Sembra di essere in un pozzo diviso in 3 ambienti. Ci sono poche opere esposte: in quella centrale c’è solo l’acquario cubico “Lost Love” di Damien Hirst che fa nuotare pesci fra una poltrona da ginecolo e il suo camice. È pur sempre Damien Hirst.

Devastante?
Non voglio essere devastato dall’arte contemporanea. Voglio essere sollecitato, disorientato forse. Divertito anche. Perfino non capirci niente. Devastato, no grazie. Specie in quell’accezione che vuol dire “Bello in maniera assurda” ma detto in un modo più involuto, per mascherare che volevi solo dire “M’è piaciuta”.

Ecco, complessivamente la Fondazione Prada mi è piaciuta, non ho problemi a dirlo.

Giudizio finale: Koolhaas ha disegnato degli episodi, delle scatole che contengono opere d’arte. Non discostandosi molto dal suo modo di operare usuale: sommare idee che singolarmente funzionano non curandosi molto se l’insieme poi risulta armonico (non curandosene mai). Qui funziona. A parte il Podium. Quello no.
Prada ha fatto un’operazione commerciale? Chissenefrega: questa è arte.
Grazie Miuccia.

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