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Fragile

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Fragile

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Ho appunti su osservazioni e note sulla politica di Trump ma ho deciso di non pubblicarli. Ho deciso di non rispondere alle provocazioni, come se poi fossero dirette a me. Più che altro non ho voglia di essere una cavia, usata dal loro cinismo per capire fino a dove possono spingersi, fino a dove può essere ampliata la finestra di Overton.

Mi sono chiesto: se alla provocazione si oppone il silenzio, cosa si ottiene? Che il provocatore crede che gli sia lecito fare ciò che pensa e vuole? Che il coltello può essere affondato senza che gli venga opposta resistenza, tanto i tessuti hanno ormai ceduto? Non so, so solo che fino a ora si è sperimentato solo di opporvi indignazione (nemmeno resistenza), con il risultato di giocare con regole decise altrove, da altri. È un grande, planetario esperimento per mettere alla prova l’elasticità del tessuto sociale, per espanderlo fino e oltre il punto di rottura. Allora bisogna ristabilire le leggi della fisica sociale: un corpo non si può espandere indefinitamente. Dov’è quindi il punto di rottura?

Da quando le cose hanno iniziato a peggiorare – e per il mondo intero c’è ormai una data ben precisa, anche se non tutti la vedono allo stesso modo – ho deciso di reagire in un modo romantico e inutile: ho deciso di guardare e fare solo cose belle. Un po’ egoistico, si dirà (chi lo dirà, poi – chissenefregherà, piuttosto) ma io racconto solo cosa ho deciso di fare, che poi ha significato solo intensificare quello che già faccio da anni.

  1. Ho iniziato a condividere quasi ogni giorno un’opera d’arte altrui, trovata su Artsy. Col tempo è diventata la collezione d’arte che non mi posso permettere ma che idealmente vorrei avere, se avessi i soldi e tutte le pareti necessarie per esporla.
  2. Ho raccontato un po’ più sporadicamente le storie dietro i nomi delle vie, perché volevo conoscerle, e perché pensavo e penso sia interessante conoscerle.
  3. Ho pubblicato (quello sì, ogni giorno) il disegno di un petalo fatto da me. Una cosa ancora una volta inutile ma fragile e delicata, cioè l’esatto opposto di questi tempi crudeli e violenti.

L’idea da cui son partito è stata semplice: non lasciarsi prendere dal pessimismo, condividere la bellezza e la storia, dimostrare che si può sempre scegliere, almeno in questo mondo qui, per ora libero.

Non so che effetto ha avuto e sta avendo tutto ciò, non lo misuro, non ho metriche e non mi interessa averne. Lo faccio e basta, a prescindere. Ostinatamente. Per guardare ogni giorno qualcosa di sereno e pacifico, e per ricordarsi che esiste comunque, a prescindere da tutto e da tutti.

Viviamo in un tempo in cui la provocazione non è più un’eccezione: è un metodo, una strategia nemmeno tanto raffinata che serve solo a misurare i limiti. Fino a dove si può dire qualcosa senza pagarne il prezzo? Fino a quando si può deformare la realtà? Fino a che punto si può mentire?

Come dicevo, da tempo ormai non reagisco alle provocazioni. In questo, il mio snobismo mi ha preservato dal far parte della massa indignata. Non voglio indignarmi perché l’indignazione è una reazione sterile, si autoalimenta e brucia di sé stessa: non produce niente.

Queste forze provocatrici hanno bisogno delle reazioni perché misurano non solo l’efficacia della loro azione ma anche il grado di estensione delle tolleranza sociale. Per ora hanno solo operato in modo da portare il tessuto coesivo fino allo sfibramento, fiduciosi che potesse arrivare a estensioni imprevedibili, fino ad accogliere l’impensabile, almeno fino a quel punto.

Non volevo reagire e penso tutt’ora che non sia intelligente farlo. La reazione fa rilevare ai loro strumenti che la lama è penetrata. D’altro canto, mi dico, non reagire può avere un duplice esito: lasciar intendere che la strada non è presidiata e che si può procedere, oppure non fornire alcun riscontro, e trasferire l’incertezza della reazione all’azione. Un’azione che non provoca reazione esiste? Ottiene un risultato?

Mi capita, dicevo, di scegliere il silenzio. O di popolarlo di oggetti di bellezza, per quanto io possa col mio modesto contributo – foto, disegni, scritti – dissimulandoli con l’indifferenza. Non voglio partecipare al gioco. Un modo per sottrarsi a quella dinamica binaria – dire qualcosa o subire qualcosa – che ormai lascia spazio solo al rumore. Il silenzio diventa pausa, spazio vuoto, interruzione. Non assenso ma diserzione.

Il silenzio non è passivo.

Il problema è che il silenzio è ambiguo: può essere letto come debolezza, come rinuncia. Può lasciare intendere che lo spazio civile non è presidiato, che c’è libertà di azione e distruzione. È il rischio del silenzio: quello di essere interpretato dal potere come un vuoto da riempire.

La provocazione non si combatte solo con la reazione, ma nemmeno con l’assenza di reazione. Allora serve qualcos’altro. Individualmente, ci provo insistentemente, con piccoli silenziosi gesti di bellezza (non mi arrogo l’onore di definire ciò che faccio “bello”, uso questo attributo per opporlo alla crudeltà dell’altra parte – crudeltà contro bellezza, neanche bruttezza contro bellezza, la crudeltà è già brutta di suo).

Che forza può assumere la somma di tanti frammenti individuali di resistenza? Qualcosa che non sia né indignazione né resa, ma costruzione. Un’altra narrazione. Un racconto che non nasce come risposta (azione e reazione), ma come alternativa. Un campo semantico diverso, costruito sulla volontà di usare un codice diverso, un linguaggio diverso, che non si adatta a un’agenda dettata da altri. È un territorio diverso, definito da una mappa che il nemico non possiede.

Ho individuato tre nodi possibili.

Silenzio surreale

Un approccio possibile è il surreale, e non è nemmeno nuovo. Usare un nuovo linguaggio significa spostare il campo d’azione, spiazzare, non farsi trovare dove si è attesi. Mi spiace usare questo linguaggio bellico (azione/reazione, campo di battaglia, sfida ecc.) ma la semantica sta tutta lì, ed è per farsi capire.

Una via è il glitch, l’errore di programmazione (ancora una volta: l’inatteso). Come scrivevo, “L’anomalia rivela un’altra realtà. Un errore nel codice non riesce a nascondere che quella in cui viviamo è una possibile versione di noi, o del mondo. Quello che l’anomalia fa vedere è incomprensibile, e non potrebbe essere altrimenti. In quella realtà non vale Cartesio, non valgono i riferimenti consueti, la materia ribolle senza avere una forma riconoscibile.

Alla fine, a questa versione della realtà senza senso (non ha precedenti, non ha memoria) se ne può opporre una che non ne ha altrettanto. Anzi, neanche opporre ma piuttosto proporre.

In questo senso anche il silenzio è un linguaggio. Come nota Byung-Chul Han in Vita Contemplativa:

È solo il silenzio a consentirci di dire qualcosa di mai udito prima.

In determinati contesti, il silenzo può caricarsi di significato e diventare una forma di linguaggio potente proprio perché inatteso. Di fronte alla provocazione che cerca una reazione immediata, il silenzio spiazza. È come lanciare un sasso in uno stagno immobile: nessuna onda si propaga come previsto.

Il silenzio di chi è provocato può anche paradossalmente creare uno spazio di riflessione per chi osserva la scena. Invece di essere trascinati nel meccanismo della reazione emotiva, il silenzio crea lo spazio mentale per indagare le ragioni della provocazione e sulla reazione soffocata che ha generato (è sempre più utile chiedersi perché si reagisce in un certo modo più che interrogarsi su ciò che ha provocato una certa reazione).

Confesso inoltre di aver scelto di non reagire perché è un’affermazione di controllo. Non concedo al provocatore il potere di dettare i termini dell’interazione. Le provocazioni sono anche (spesso, quasi sempre) distrazioni dal tema principale. In quello sta ogni debolezza del provocatore e solo da quello vuole distogliere l’attenzione.

Infine, il silenzio è ambivalente e non facilmente interpretabile, o si presta a più letture. Può essere sdegno, superiorità, indifferenza, paura, o persino come una forma di resistenza più profonda. L’ambivalenza genera incertezza nel provocatore, che non registra più la reazione che attendeva.

L’ironia

Una volta non amavo l’ironia, la consideravo una debolezza, una via di fuga. Ho cambiato idea. L’ironia è il soffio di vento che scompiglia le carte, è l’irruzione dell’inaspettato, è un caos controllato (opposto al caos distruttivo del provocatore).

È un registro comunicativo sottile ma potentissimo, capace di smascherare l’assurdità e la pretenziosità senza cadere nella trappola dell’indignazione frontale. Rivela la debolezza dell’azione provocatoria che spesso si ammanta di serietà e di ineluttabilità. L’ironia è un filtro che isola la rabbia o la frustrazione e diventa una risata, uno sberleffo. Richiede una decodificazione del messaggio, una sua destrutturazione ed esposizione delle parti deboli. Il linguaggio aggressivo, una volta smontato, è inerte. L’ironia ne espone la debolezza.

Il tempo

Il caro, vecchio tempo. È una dimensione, è una condizione, è una condanna? È l’acqua dei pesci di Wallace: c’è e non ci si può fare molto. Il fatto che ci sia e che esista indica però anche qualcosa di diverso: ne siamo tutti soggetti, provocatori e provocati. Il tempo non è dominabile ma ciò che si fa col tempo e nel tempo è una scelta di libero arbitrio (per questo, anche, ho deciso di disegnare petali o collezionare quadri che non possederò mai).

Chi provoca ha sempre fretta. È convinto che distruggere cose sia una forma attiva di costruzione (oppure vuole solo fare spazio, liberare la visuale, chi lo sa) ma sa anche – pur senza confessarselo – che il tempo gli è contro. Il tempo costruisce con tempo, il tempo non concede vita a ciò che si è sviluppato in un fiato e non sa respirare. La loro è l’ossessione per il presente continuo e indifferente, sempre uguale e quindi dominabile, come se vi avessero scoperto la chiave di lettura. La riflessione del tempo lungo, costruito con la pazienza scopre invece le infinite chiavi di lettura, le chiavi mutevoli. Del resto il tempo lungo, quello che serve a comprendere, sedimentare, costruire, non è compatibile con la retorica dell’onda d’urto.

Il tempo – sembra un paradosso – è un dispositivo di sottrazione. È lo spazio in cui si sciolgono le trappole narrative, si smascherano i trucchi. Il tempo toglie la maschera all’inganno e mostra la verità. È lo strumento più sottovalutato della resistenza: quello che permette di non rispondere subito, non per ignorare, ma per trasformare la reazione in pensiero.

Chi provoca teme il tempo perché il tempo discerne, purifica, divide il valore dalla miseria. Ogni provocazione non accolta resta invece a decantare, rivela il proprio vuoto, diventa solo un’eco che non trova risposta.

Il tempo, quindi, è una scelta. È una lentezza attiva. È abitare la profondità. È il ritmo di chi non rincorre ma coltiva.

Il tempo si compone di tempi: quello dell’accoglienza silenziosa della provocazione, quello dell’analisi, quello della costruzione della visione.

Il contesto in cui sfidare il provocatore è il tempo dilatato.

È un’operazione profondamente politica, perché toglie potere a chi lo esercita attraverso l’urlo e lo sposta verso chi racconta. Ogni storia ha un suo tempo, ogni provocazione ha l’estensione di un urlo prepotente. Il silenzio è potente.

Catrame(pod)

Sono stato ospite di Paola Natalucci e del suo CatramePod. Abbiamo parlato di meditazione, di libri fondativi, di come leggere la filosofia francese contemporanea e di vita. Grazie Paola!

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