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Estinzione

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Estinzione

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Era estate, di notte. Non avevo neanche 18 anni, ma poco importa. Parlavamo guardando le stelle, io e amici.

A un certo punto non ricordo chi domandò “Ma se noi facciamo parte della via Lattea ed è una galassia ma di galassie sappiamo che ce ne sono altre, cosa succede andando sempre oltre? Cosa contiene tutto? E soprattutto, cosa c’è oltre il tutto? Il niente? Come può il niente contenere il tutto?”

Fissando le stelle provai a pensarci ma dopo un po’ chiusi gli occhi e strinsi le palpebre sempre più forte per frenare i pensieri che avevano accelerato fino al punto di arrivare ai confini di tutti gli universi. Non potevo immaginare cosa ci fosse oltre e non solo: il pensiero mi dava le vertigini. Pensare a ciò che contiene ciò che è già immenso è troppo per la mente umana, o almeno per la mia. Non mi era solo impossibile, era un pensiero che mi dava malessere.

Quello fu forse il primo incontro con l’incommensurabile.

Credo di non sbagliarmi molto a pensare che le religioni originino proprio da sentimenti simili: la mancanza di spiegazioni trova un conforto nelle storie.

L’uomo ha da sempre avuto il bisogno di cercare un senso. Le storie sono sempre state un buon modo per trovarlo, anche se non forniscono spiegazioni inequivocabili ma piuttosto allegorie e allusioni. Identificarsi con parabole umane diverse fa sentire meno soli in questo universo (è per questo che le divinità greche sembrano così umane, perché assomigliano moltissimo agli esseri umani).

Anche le storie hanno però dei confini e possono spiegare la realtà e la vita fino a un certo punto. È una questione di misura e proporzioni: in ogni storia ci stanno dentro un certo numero di cose e ogni storia illumina una parte di volta celeste.

I confini dello spazio (o l’impossibilità di immaginare dei confini) mi sono tornati in mente sentendo parlare Paolo Giordano di Alberto Moravia. Il riferimento era all’Inverno Nucleare, come lo chiamò Moravia. Una bellissima e terrificante immagine che è anche una storia in sé: d’inverno i sentimenti avvizziscono e muoiono, o almeno più che d’estate.

Moravia raccontava che la minaccia di una guerra atomica l’aveva costretto per la prima volta a pensare al genere umano come a quello a cui apparteneva. Ovviamente sapeva già di farne parte ma non ci aveva mai riflettuto e ora, forse per la prima volta nella storia, non era più una nazione o un insieme di popoli a essere minacciato da una guerra ma l’intera umanità. La minaccia era l’estinzione.

L’argomento non è nuovo: chi ha vissuto o è cresciuto durante la guerra fredda ha sempre sentito incombere presente la minaccia della possibile distruzione totale ma senza mai capirne veramente la dimensione. Non di certo per pigrizia o incapacità, né per distacco emotivo o cinismo: un evento di una tale portata è semplicemente incommensurabile (avrei potuto intitolare questo pezzo proprio così, “incommensurabile”) ed è impensabile che l’essere umano possa figurarselo e averne un’idea.

Puoi pensare a come può essere un incidente stradale, l’effetto di una bomba, il freddo estremo e un intero catalogo di situazioni sgradevoli e tragiche, su su (o giù giù) fino alla morte ma come puoi immaginare qualcosa che è oltre ogni scala di grandezza?

Come puoi immaginare l’estinzione?

Ho ripensato alle Tre Leggi della Robotica di Asimov. Non precisamente a quelle ma piuttosto al concetto che esprimono. Anche l’uomo segue leggi innate e non culturali, un po’ come per Asimov i robot avrebbero dovuto avere dei principi limitatori e informatori della loro esistenza. Cose che si possono fare e non fare, cose – insomma – che servono a garantire la prosecuzione della vita non solo dell’individuo ma soprattutto della specie.

L’estinzione azzera tutto ciò: cancella gli individui e termina una specie, nella sua interezza.

Come dicevo, queste leggi esistenziali non sono culturali: non ce le siamo dati dopo averne discusso e nessuno ce le ha insegnate, sono incise nel codice genetico poiché ne permettono il moltiplicarsi e la sopravvivenza. Un po’ come abbiamo una naturale e automatica inclinazione per respirare e nutrirci e difenderci.

Oggi l’estinzione che abbiamo di fronte e che forse stiamo già vivendo è diversa da quella proiettata dallo spettro dell’olocausto nucleare. Si tratta di un’estinzione al rallentatore perché ha i tempi dei cicli climatici. Ma non delle ere geologiche, ed è quello che sorprende e allarma, e cioè che le cose non solo cambino ma soprattutto che lo facciano così velocemente.

Questa estinzione, o almeno potenziale estinzione, è persino più problematica da comprendere nella propria interezza e potenza da chiunque, perché è già di per sé incommensurabile e incomprensibile per dimensioni e inoltre accade lentamente. Non ha nemmeno l’effetto scenico e panico di un’esplosione che in pochi istanti cancella ogni forma di vita: accade, ma lentamente, così tanto da non essere percepibile o almeno da non essere abbastanza chiaramente percepibile.

Moravia diceva che la minaccia atomica per la prima volta l’aveva costretto a pensare al genere umano come a un’entità omogenea, cosa che prima non aveva mai fatto. Ed è difficile non pensare che fosse una caratteristica molto precisa della minaccia a rendere più evidente il pericolo, ossia l’urgenza e ineluttabilità. Se si fosse attuata non vi sarebbe stato scampo e tutto sarebbe accaduto e si sarebbe concluso in un attimo.

Questa nuova estinzione moderna è più subdola perché, come si diceva, avviene al rallentatore, per quanto i tempi in cui si sta dispiegando siano acceleratissimi e infinitesimi in termini geologici. Eppure sono percepiti come modeste variazioni della realtà fenomenica, un po’ come la frequentazione continua di un gruppo di persone non fa cogliere l’invecchiamento delle stesse, se non ad anni di distanza.

Quindi, ancora una volta, la percezione è un filtro importantissimo con cui guardiamo la realtà e la interpretiamo, ma è anche un velo impenetrabile che non ci fa capire l’evolvere e il degenerare di una situazione.

Combattiamo lungo tutta la vita con il tempo e poi ne siamo anche soggiogati, nel senso che come ci pare di non averne mai abbastanza, ci pare anche di averne una quantità infinita. Come nel caso dell’evolversi di fenomeni di dimensione planetaria, difficili da quantificare e vedere per la loro scala territoriale e perché non è immediato applicarvi una scala temporale.

Tutto ciò che sfugge da una misurazione semplice del tempo in cui si svolge diventa fuori scala, incomprensibile, poco importante. Non se ne vedono i confini e allora si pensa che non ne abbia. Non nel senso che sono talmente altrove da non aver importanza, ma nel senso che si pensa che non esistano e basta.

Un po’ come quelli dello spazio, che non potevo immaginare, figurare, creare nella mia mente. Quelli erano confini spaziali e tendevano (tendono) all’infinito. Questi sono temporali e finiti.

Il tempo è una dimensione elastica. Varia in durata e natura a seconda della percezione. Sappiamo che esiste ma lo leggiamo in molti modi diversi. Il tempo dell’estinzione – ammesso che sia tale – è di lettura difficilissima. Non ne abbiamo voglia né pensiamo che ci interessi.

L’estinzione ci sembra semplicemente impossibile, e quindi non è affare nostro. Oppure è un pensiero che si può fare procedendo sul terreno dei paradossi, una notte d’estate, guardando le stelle e pensando dove finiranno mai. Finiranno a un certo punto?

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