Non ho mai avuto un buon rapporto con le emozioni, il che, in linguaggio umano (o maschile, dovrei specificare) significa che le ho sempre represse. L’ho fatto non solo in pubblico ma anche con me stesso: reprimerle non significa non provarle ma non farle trasparire. Ciò non mi identifica come un cyborg né come un insensibile: come dicevo, ho sempre provato emozioni. Provarle ed esprimerle sono due cose diverse.
Un giorno mi chiesero se avevo paura di volare. Dissi di no ma poi ci riflettei più attentamente: in verità io ho paura di volare, esattamente come ho paura di fare o provare qualsiasi cosa che non sia naturale, cioè che non faccia parte della natura umana. Volare di certo non è umano. Io ho paura di volare ma non ci bado, quindi controllo razionalmente questo timore. Con le emozioni faccio un po’ la stessa cosa: le provo ma le controllo.
Si dice che guardare la bocca di un vulcano in eruzione – ammesso che ci si possa avvicinare così tanto da assistere al sublime spettacolo (il che è impossibile) – coincida con il desiderio di buttarvicisi dentro. Non per istinto suicida ma perché una forza misteriosa ci attrae. Si dice anche le vertigini siano una reazione razionale all’irrazionale tensione che abbiamo a lanciarci nel vuoto. Si dice, nel senso che non so quanto di scientifico vi sia in tutto ciò ma mi pare plausibile.
Quando cammino sulla bocca di un vulcano o sul cornicione di un grattacielo e quando provo emozioni faccio la stessa cosa: fingo di non vedere, fingo che non stia succedendo niente.
Fino a ora.
In data 19 agosto 2024 ho annotato sul mio diario:
Ho deciso che sono abbastanza forte per cedere all’emotività, o che non sono abbastanza debole per vergognarmene. Ho deciso di sedermi al suo fianco e parlarci: io e la mia emotività, per i cani, per le cose fragili e che si allontanano nel tempo, ho deciso che per loro posso essere altrettanto fragile ed emotivo, riempirmi gli occhi di calde lacrime, vederci un po’ di meno, pensare che le cose che contano sono lì, quelle che vedo fra le lacrime e gli occhi lucidi. Posso essere emotivo, finalmente.
Ho capito che qualcosa stava cambiando nel mio rapporto con l’emotività grazie ai cani. Ho scoperto che un motivo del legame così profondo che abbiamo con loro è dovuto al fatto che i loro occhi mostrano la sclera, facendoli assomigliare a esseri umani. In effetti da quando ho un cane ho constatato che è l’animale più umano che mi sia mai capitato di osservare. Affettuosamente lo paragono a un umano che ha avuto un ictus e non può parlare. Vorrebbe tantissimo ma non ci riesce.
Quando vedo dei cani osservo, anche se in forma traslata e ben sapendo che non sono umani, degli esseri umani. Provo emozioni. Non ho rielaborato molto di più questa constatazione ma ho deciso che commuovermi ed emozionarmi per i cani andava benissimo.
In quel frangente si è aperta la prima crepa nel muro che avevo eretto a difesa della mia emotività: avevo sempre pensato che celarla l’avrebbe salvata, che non manifestare emozioni le avrebbe preservate. Ho sempre avuto emozioni, sono un essere umano, eppure ho sempre pensato che manifestarle significasse esporle e quindi metterle in pericolo.
Il cambiamento di passo non consiste nel provare emozioni ma nel manifestarle e ragionarci attorno. Non dico sia giusto o sbagliato mostrarle, dico che ora sono pronto per farlo. Pur senza trasformarmi in una fontana di lacrime a ogni video di animali in difficoltà, c’è pur sempre una misura.
Una volta mi trovai a piangere vedendo il trailer di un remake di Cenerentola al cinema. Complice il buio in sala, il famoso groppo in gola salì fino agli occhi ed esplose in lacrime. Cenerentola, per dio! Ero esaurito o cosa? Perché proprio Cenerentola? Mi identificavo forse in una ragazza maltrattata e non compresa, sfruttata da orribili sorellastre? Niente di tutto ciò. Constatavo solo che, non visto da nessuno, quel sentimento era sgorgato dal profondo dell’animo ed era diventato lacrime.
Le emozioni hanno poi un’altra peculiarità: sono dinamiche, cambiano in continuazione. Cioè, non è che non lo sapessi anche prima, ma invece di percepire questa instabilità come un difetto ho imparato a capirne il potenziale: cambiano come cambia tutto, cambiano come si modifica costantemente la percezione che abbiamo della realtà. Provarle ed esprimerle è insomma un modo per navigare le acque del contingente, è un modo per restare a galla sulla superficie di ciò che ci accade. Contenerle o negarle significa invece tentare di fermare questa corrente, un’operazione chiaramente impossibile.
Quindi provare ed esprimere emozioni è più saggio che negarle e reprimerle.
Resta il problema di come fare, che non è nemmeno un problema. Bisogna trovare il giusto modo, il rapporto sano con le emozioni.
Ho imparato a sedermi accanto a loro e a parlarci. Non si tratta di un dialogo vero e proprio ma piuttosto di un ascolto. Le emozioni sono come bambini: scalpitano e strepitano finché non presti loro attenzione. Se invece ti siedi al loro fianco e ci parli (o le ascolti) si calmano e ti spiegano come si sentono e perché sentono la necessità di manifestarsi.
Spesso (sempre) confondiamo le emozioni con i loro effetti. Siamo tristi e pensiamo che la tristezza sia una condizione più che una manifestazione o un effetto. Qualcosa di più profondo prende la forma di un’emozione, eppure pensiamo che l’emozione sia tutto, sia un oggetto solido, finito, autogenerato. L’emozione rimanda ad altro ed è una reazione. Non parlarci – cioè negare qualsiasi rapporto con essa – significa interrompere il legame che essa ha con la causa che l’ha generata.
Non sempre capisco perché sono triste o agitato o pessimista o anche ottimista o euforico. So solo che non sedermi a fianco della tristezza, dell’agitazione, del pessimismo o dell’ottimismo o dell’euforia e iniziare una conversazione non può di certo aiutarmi a capirne le cause.
C’ho messo solo cinquant’anni a capire una cosa del genere ma credo che, oltre alle emozioni, dica un’altra cosa altrettanto importante: la conversazione, la parola e l’ascolto sono sempre veicoli fondamentali di comprensione.
Allora ho capito perché non volevo manifestare emozioni: perché non le conoscevo e non pensavo mi descrivessero. Non le sapevo ascoltare e loro gridavano ancora più forte.
Quando parlo con loro – ho imparato – hanno un tono pacato: vogliono solo essere ascoltate. Io in fondo non sapevo ascoltare me stesso, e queste parole che ho scritto oggi, per quanto confuse e poco organizzate, sono un primo tentativo per dire “Ti ho sentita emozione: parliamo, parliamone”.
Mi pare giunto il tempo di farlo. Anche il mio cane è d’accordo.