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Anomalia

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Anomalia

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Nel 1976 il compositore olandese Simeon ten Holt completò la scrittura della sua composizione più famosa, Canto Ostinato. Annoverata fra le più riuscite del minimalismo musicale, è composta da centosei cellule chiamate “sezioni”: sono frammenti di poche battute, da eseguirsi ad libitum e a discrezione dei musicisti, rendendo la sua durata variabile da un’ora a più di un giorno. Analoga libertà è lasciata alla scelta del tipo e numero di strumenti con cui eseguirla: dal piano solo a due o quattro. Ve n’è una bellissima versione del 2023 del polistrumentista Erik Hall, registrata nel suo studio domestico su un pianoforte Steinway Model O, un piano elettrico Rhodes e un organo Hammond M-101.

All’apparenza le 106 celle sembrano sempre la stessa melodia, ripetuta ossessivamente. Ascoltandola ci si rende però conto che la musica procede per accumulo, e che si aggiungono strati che si muovono verso punti di risoluzione per poi sciogliersi e ricominciare ad annodarsi.

L’uniformità è solo apparente, così come l’omogeneità del trattamento compositivo, giacché il cervello, ascoltando, attende e cerca di anticipare le dilatazioni e le compressioni, le variazioni tonali, le sfumature. Nell’uniformità la mente può assopirsi o cercare l’impercettibile variazione. Il piano nasconde le lacune e i rilievi e ciò che appare lineare e prevedibile da un punto di vista, risulta ripiegarsi su se stesso, impennarsi e riappiattirsi da un altro.

La ripetitività con sottili variazioni di Canto Ostinato sembra quella della vita: di una vita mediamente ordinaria, lungo la quale la variazione è percepita come una perturbazione del campo. A volte è visibile, a volte non è detto che non esista ma che non sia percepita. La variazione è l’anomalia: è ciò che viene percepito come diverso, fuori contesto, incoerente. È un disturbo del segnale.

Nel 1999 uscivano due film molto diversi. Capita spesso che in un anno qualsiasi ne nascano molti, non è questo il punto. Il punto è che uno dei due è invecchiato benissimo, l’altro un po’ meno. Il primo l’ho rivisto recentemente per la seconda volta ed è ancora perfetto, il secondo l’ho visto per la prima volta qualche settimana fa e, almeno fotograficamente, sembra appartenere a un’altra epoca. Il primo è Matrix, il secondo è Il talento di Mr Ripley.

A dirla tutta non volevo nemmeno paragonarli: mi è solo capitato di notare che sono entrambi dello stesso anno. Nel 1999 c’erano almeno due sensibilità cinematografiche diverse, e anzi, ce n’erano chissà quante altre, esattamente come oggi ce ne sono altrettante.

Il nascere lo stesso anno non significa niente se non il fatto di essere nati lo stesso anno, e “nascere” non è nemmeno il verbo giusto, dato che un film viene girato e poi montato e infine distribuito ma non evolve: resta tale e quale alla nascita, non matura come un essere umano, non può adattarsi alla sensibilità dei nuovi tempi correnti: è per sempre così, come è nato.

Questo ha decretato che due film coevi siano diversissimi.

Questa osservazione non va molto più in là di se stessa e non è nemmeno l’oggetto di questa riflessione. L’oggetto è ciò che, nel lungo periodo, rimane più impresso di Matrix. Dopo la prima visione, come molti, ero sopraffatto dagli effetti speciali e dalla storia, e anche dal perfetto equilibrio fra queste due componenti. Si servivano a vicenda e nessuna delle due prendeva mai il sopravvento: gli effetti speciali erano funzionali al racconto e il racconto poteva essere narrato solo con quegli effetti speciali.

C’è però, dicevo, un dettaglio di quel film che ha sedimentato più di altri nella memoria, ed è quello del glitch: cioè l’anomalia, il disturbo.

Il glitch è tecnicamente un errore di un software che in Matrix si rivelava in incoerenza del reale, come un gatto che appariva più volte nel campo visivo di Neo. In quanto errore di programmazione, il glitch rivela la struttura ordinata ma controllata della realtà, o almeno di quella che appare come tale. In questo, Canto Ostinato è sia la più precisa rappresentazione della monotonia del reale che della ripetizione di un glitch: è un glitch che, nel reiterarsi continuamente, diventa la realtà. Il glitch è lo squarcio nella tela che chiamiamo “la realtà” che ne manifesta l’illusorietà.

Ciò che è reale è solo ciò che consideriamo reale. La realtà è un’altra o forse non esiste. La realtà è una proiezione individuale.

Ho scoperto che Eugenio Montale aveva preceduto Matrix di molti decenni. In Mattino d’Inverno scrisse:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro, arida,
rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Quello che vede Montale non è uno squarcio nel tessuto del reale ma il crollo totale dello schermo (lo chiama proprio così) su cui questo si proietta. Quando lui non vede, quando è girato di spalle il reale non si cura di essere visto per come è e lo schermo si dissolve: il reale è il nulla.


Per la mia sanità mentale mi ripeto che il reale è reale e non penso che non lo sia. Quando mi capita di scorgere qualche glitch penso che sia uno scherzo del cervello che non è riuscito a processare in modo lineare le informazioni che gli provengono da occhi orecchie dita e naso: il sistema operativo umano registra l’incongruenza della percezione e la archivia come una singolarità. Un errore percettivo più che la rivelazione dell’illusione in cui non sa o non vuole sapere di vivere.

Ma, appunto, non credo che il reale non sia reale.

Però. Però col tempo ho iniziato a chiedermi che consistenza abbia il velo della realtà. Potrebbe forse davvero trattarsi di uno schermo: pochissima materia spessa come un foglio che separa la sanità mentale dalla follia. E poi: la sanità è la condizione in cui tutto è normale e coerente o quella in cui non lo è? La sanità è l’ordine cartesiano delle cose o ciò che vi è oltre?

Come la maggior parte delle persone, vivo da una vita al di qua dello schermo: tutto mi appare mediamente congruo per il 99,99999% del mio tempo su questo pianeta. Ciò che è incoerente si intravede tra le crepe del reale: fa capolino quel tanto che mi porta a chiedere se sia quello che vedono alcune persone meno stabili mentalmente. Forse quella è la realtà di chi quelli normali una volta definivano pazzi.

Eppure la distanza è davvero infinitesima e ben descrive quanto sottile sia ciò separa ordine e disordine, sanità e follia.

Ammesso che si tratti di follia.

Una lettura alternativa è che il glitch/l’anomalia riveli un’altra realtà, e forse questa è la prospettiva meno disperante. Un errore nel codice non riesce a nascondere che quella in cui viviamo è una possibile versione di noi, o del mondo. Quello che l’anomalia fa vedere è incomprensibile, e non potrebbe essere altrimenti. In quella realtà non vale Cartesio, non valgono i riferimenti consueti, la materia ribolle senza avere una forma riconoscibile.

Quegli squarci sono le porte che l’Arte riesce ad aprire e ci riesce perché può superare l’unico vincolo della vita umana: il tempo. Annullando le condizioni temporali (anticipando il futuro ne azzera il dominio, perché non esistono più un prima e un dopo ma solo un eterno presente) l’Arte domina il tempo.

Per questo Matrix non è invecchiato ed è eternamente presente: perché racconta la storia di un uomo che squarcia il velo e che, osservando la realtà reale, annulla il tempo.

Come Montale, torna tra gli uomini che non si voltano, ma col suo segretoOra sa che è tutto un’illusione e che anche il tempo può essere compresso o dilatato, manipolato e stravolto. Basta solo trovare quell’anomalia in mezzo alla ripetitività, all’uniformità. Fra le 106 sezioni del Canto Ostinato, nascosta da qualche parte, c’è l’anomalia.

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