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Le parole che seguono potrebbero essere molto personali, nel senso che riguardano fatti che mi sono accaduti e mi stanno accadendo. Se li narro è perché sono funzionali a un discorso che spero sia più generale. Sono una persona riservata e non parlo di me e della mia vita, soprattutto perché non penso sia così interessante, o quanto meno non abbastanza da essere raccontata. Cominciamo.

Da un anno e qualche mese ho ricominciato a studiare. Nello specifico: sono un dottorando. Studiare mi è sempre piaciuto, anche se quando ero obbligato a farlo non lo sapevo e anche se negli anni, e per lunghi periodi, avevo dimenticato quanto mi piacesse farlo. Poi ho insegnato e, per farlo, ho dovuto riprendere a studiare. Dovevo parlare agli studenti, dovevo spiegarmi e spiegare loro. Mentre ripassavo o approfondivo argomenti che conoscevo, anche se solo superficialmente, ho dovuto ammettere che farlo mi piaceva molto. Del resto sono sempre stato curioso: se avevo abbandonato (momentaneamente) lo studio era per altri motivi, in particolare per il lavoro, l’altro lavoro, anzi gli altri lavori (fare l’architetto, scrivere ed essere editor di Runlovers).

Ora, si dirà, un dottorato a 50 anni non sembra l’idea migliore. Quello è un passo che si compie mentre si inizia a pianificare una carriera, e infatti lo si fa dopo la laurea, con l’intenzione di tentare la strada dell’accademia o di diventare esperti in qualche materia. Però ho questo vizio: quando mi trovo di fronte a un bivio da cui si dipartono una strada nota e una sconosciuta, scelgo sempre la seconda. Sono curioso, l’ho detto, e le strade note non mi interessano, o mi interessano solo quando devo percorrerle distrattamente, perché sto pensando ad altro.

Essere dottorandi significa studiare ed elaborare: nuove teorie, nuovi studi, innestandoli su altri esistenti (proseguendo su strade già iniziate ma costruendone la prosecuzione) o creandone di nuovi (di certo la parte più difficile, dato che si tratta di elaborazione di alto livello e di invenzione di ciò che ancora non esiste).

Si pensa che chi studia debba imparare ciò che è già stato scoperto, scritto, codificato. Lo studio invece può essere anche qualcosa di diverso e più radicale: almeno a un certo livello, esso comporta la conoscenza delle scoperte pregresse e l’elaborazione o creazione di nuove.

Esiste insomma uno studio autoreferenziale (lo studio per lo studio in sé) e uno creativo, non nel senso che inventi fatti e cose che non esistono, ma nel senso che elabora e crea nuove conoscenze e nuove connessioni. Questo studio si basa sulla ricerca, sulla capacità analitica e sulla creatività (oltre che sul metodo scientifico, naturalmente). Alla base di tutto, ho capito alla fine, vi è qualcosa di molto semplice:

Fare ricerca significa sapere fare buone domande.

Partiamo dall’inizio, cioè da quando ho iniziato il dottorato. Non so se sia comune quello che mi è accaduto (o che ho fatto accadere) ma la materia di studio – su cui non mi dilungherò perché non c’entra con la trattazione (altra cosa che ho imparato in questi mesi) – era attinente ai miei studi ma non ne avevo una conoscenza particolare. A dirla tutta non ne avevo quasi nessuna. Il che potrebbe configurare il panico o l’incoscienza più totale o il più fertile contesto per iniziare una ricerca fruttuosa: quella senza preconcetti e senza rigidità mentali. Un pensiero che si presta a essere plasmato in massimo grado, dato che è materia grezza.

A dirla tutta, e per indugiare sulle note autobiografiche, uno dei crucci iniziali era quello che riguardava la mia età, anche se è durato poco e si è concluso con un chissenefrega. Non c’è un’età e semmai è ispirante che anche a 50 anni uno si rimetta a studiare. Quando viene meno la curiosità manca lo stimolo a chiedersi cosa può riservare la giornata, il mese, l’anno. Avevo deciso di andare a tutta velocità contro l’abbraccio della pura ricerca: ne sapevo poco, avrei dovuto imparare tutto e tutto rielaborare.

Un fatto che mi è rimasto impresso di quei primi tempi fu una cosa lessi: Brian May – esatto: il chitarrista dei Queen – aveva ottenuto un dottorato in astrofisica nel 2007, quindi a 60 anni. Ora: le nostre due condizioni erano completamente diverse e, per metterle in comunicazione avrei dovuto prima diventare il famoso chitarrista di una famosa rock band, e avrei dovuto averlo già fatto qualche decennio fa. La cosa divenne un dettaglio curioso che mi piace raccontare, pensando che May l’affrontò quando era pure più vecchio di me. Non c’è età per fare un dottorato, anche se farlo da milionario e, probabilmente, per puro diletto e amor di scienza è un po’ diverso.

Eppure una cosa in comune io e May ce l’abbiamo, dottorato a parte: evidentemente ci piace studiare e ci piace la ricerca. Che è un altro modo per dire che siamo curiosi e siamo attratti dal creare sistemi di conoscenza.

Una delle cose che ho capito in questi mesi è che non mi interessa la conoscenza, ma sono attratto dal capire perché voglio conoscere.

E qui inizia a prendere forma la seconda e più importante cosa che ho imparato: mi sono accorto che fare ricerca significa ricercare dentro se stessi. E per trovare qualcosa devi accettare di perderti. Molte, tantissime volte.

È vero che ricerchi dati, storie, casi studio, contatti e teorie ma ogni scoperta e soprattutto ogni strada che finisce nel nulla (e ne percorri svariate) sono delle perfette metafore della vita.

Ogni percorso che si intraprende nasce da una domanda, a volte anche la più semplice: dove vado?

La domanda è elementare ma spesso si trascura il senso nascosto che ha: non c’è una destinazione precisa ma si conosce solo la direzione. Ci si muove concentrando l’attenzione su determinate linee e si cerca di andare in certe direzioni, confidando che portino da qualche parte. Pensando che quella destinazione sia poi importante per la ricerca, e capendo solo nel tempo che anche le direzioni sbagliate hanno un senso: servono a rendere più evidenti quelle giuste, dato che le rendono più brillanti, più inequivocabili.

È possibile sapere se si è sulla strada giusta solo avendo percorso anche quelle sbagliate, o quelle che non portano a illuminazioni particolari.

Questo discorso parrebbe relegato in particolare alla ricerca accademica eppure più procedevo, più mi accorgevo che quello che facevo assomigliava sempre di più alla vita: non sai dove stai andando ma sai che per arrivarci devi muoverti e per farlo, almeno nel campo del sapere, devi imparare ogni giorno qualcosa, con umiltà e determinazione.

La ricerca è movimento, è un cammino che procede lentamente o speditamente, a seconda dei tempi e delle contingenze. È un lento e a volte ossessivo lavorio. Un po’ come la vita.

Non è che la si può sospendere: si vive ogni giorno finché si è vivi e, se si smette di farlo, è perché si è morti o perché si è persa la curiosità per capire e scoprire.

E quindi la ricerca è ambivalente: ha un valore oggettivo (si spera) e uno soggettivo e personale, perché diventa uno specchio su cui rifletti le tue capacità: di analisi, di sintesi, di critica, di applicazione della creatività. E non solo.

Insomma: ho iniziato questo dottorato pensando che riguardasse un aspetto di me – se vogliamo quello più intellettuale – e man mano che procedevo capivo che riguardava anche il resto, cioè un po’ tutto.

Non che sia stato e sia tutt’ora molto diverso dalla mia vita sin qui: se dovessi dire un pregio che mi riconosco e, allo stesso tempo, un difetto, direi la stessa cosa, cioè che uno dei miei principali difetti è anche uno dei miei principali pregi. Sono dispersivo, spazio e sono attratto da argomenti diversi fra di loro, e appartenenti a campi spesso distanti. Pittura, arte, architettura, urbanistica, comunicazione, tecnologia, economia, politica, letteratura, musica, finanza, fotografia, autobiografie, storie. Cosa li tiene tutti insieme? Forse la mia innata e dissennata capacità di appassionarmi a tutti, magari contemporaneamente. Che, si capirà, è il modo migliore per non saperne di nessuno niente di particolarmente approfondito.

C’è però un vantaggio nel procedere nella ricerca – esistenziale – in questo modo, ed è quello di poter collegare punti che i saperi verticali non permettono. A volte, non sempre ma spesso, vedo connessioni fra modalità appartenenti a discipline diverse e colgo similitudini fra campi non contigui.

E giungo a un finale, ossia a quelli che definisco i pilastri.

Potrebbero essere le direzioni ma preferisco immaginarli come dei centri di gravità attorno a cui tutto ruota e da cui si allontana, per poi tornare, in eleganti orbite ellittiche. I pilastri non sono direzioni ma sono suggestioni e suggerimenti del destino che appaiono fulgidi nella loro importanza, ma meno nella loro ragione d’essere. Perché penso siano importanti? Perché cerco di girarci attorno e avvicinarmici? Non lo so, posso scoprirlo solo facendolo. Non è dato di capire perché siano importanti: si sa solo che lo sono.

Le definisco suggestioni perché – nella ricerca e nella vita – mi sono accorto che ho sempre vissuto (e studiato) girando attorno ad argomenti più grandi. A pensieri lunghi, appunto. Potrei anche chiamarli demoni, perché tali sono, ma non in senso negativo, non sono emissari di forze oscure. Sono domande che pretendono una risposta.

Non ho mai saputo cosa ci stessero a fare e che funzione avessero ma c’erano e ci sono. Un motivo ce l’avranno.

I pilastri li vedi ma non sai cosa reggono o se reggono qualcosa. Ma ci sono.

Ritornando ciclicamente all’inizio: la ricerca non è trovare, o non lo è in primo luogo, ma è farsi domande, possibilmente quelle giuste, sapendo che forse non hanno una risposta.

In questi mesi mi sono spesso ritrovato a chiedermi dove stavo andando e che senso aveva quello che stavo facendo. La ricerca ha spesso questa componente di oscurità, del resto il suo senso è di rischiarare con la conoscenza, cioè di illuminare parti del territorio, di conoscerlo, finalmente.

Ricercare non è insomma aggiungere conoscenze alla contabilità nozionistica ma usare ciò che si è scoperto come appoggio per scoprire dell’altro, costruendo un gradino alla volta, usando un nuovo gradino come base per quello successivo. A volte questi gradini vengono costruiti attorno ai pilastri, altre volte in luoghi sbagliati, che non conducono a nessuna sommità ma che, semmai, fan vedere i pilastri da una posizione più sopraelevata. Allora si scende, si ritorna verso i pilastri e si ricomincia a salire.

Non ho scelto a caso la metafora dei pilastri per definire queste domande fondamentali. In un certo sono loro stesse a porsi – o le pone qualche forza di cui non si conosce l’origine, e magari sono importanti per noi ma non per altri – e, nel farlo, suggeriscono una risposta o almeno una direzione di indagine. Appaiono importanti senza un motivo particolare, ma fanno capire che per loro passa la via maestra. Allora la segui, poi ti allontani, poi ci ritorni e ricominci a salire.

Il tempo per esempio è uno dei miei pensieri lunghi/pilastri/demoni. È un enigma che non ha una soluzione ma attorno a cui mi arrovello da decenni. Perché esiste? Che senso ha? È una forza positiva o negativa? È una dimensione, un’illusione? La fisica lo spiega in un modo, la filosofia in un altro, l’umanità lo subisce o lo mette a frutto.

La ricerca – in senso esistenziale – non ha una risposta. Ne può e ne deve avere quella accademica ma, si sarà capito a questo punto, son partito da quella per parlare di altro. Perché mi sono accorto che studio per capire meglio la vita, studio altro per studiare me stesso, sapendo che non ci sono risposte definitive ma, semmai, solo buone domande.

Forse alla fine la risposta sarà qualcosa che non si può esprimere a parole, qualcosa di così evidente da poterla contemplare solo pensando “È sempre stato così, era così evidente, tutto è chiaro ora”.

Nel frattempo, continuo a cercare.

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