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La falsa verità

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La falsa verità

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Veles è una città della Macedonia del Nord che la cronaca indica come l’epicentro della produzione di fake news politiche, particolarmente nel 2016. In crisi economica e industriale, gli abitanti della città — che ne conta 40.000 — si ingegnarono a produrre qualcosa di diverso: notizie false, distribuite su testate che spesso avevano nomi che ne ricordavano altre ufficiali, scelti apposta per ingannare e superare le maglie della distribuzione incontrollata e virale.

Jonas Bendiksen è un fotografo di Magnum che ha visitato e fotografato Veles e i suoi abitanti per farne un libro, chiamato The Book of Veles.

La storia a questo punto potrebbe essere giornalisticamente già interessante ma è invece ricca di ulteriori ramificazioni e racconti, come una complicata scatola cinese.

Perché il lavoro di Bendiksen si chiama “The Book of Veles”? Si tratta di un libro fotografico ma il nome è mutuato da un altro Libro di Veles, ossia un testo risalente al 1919. Riferisce di 40 tavole inscritte rinvenute da un ufficiale in Russia, scritte in una lingua proto-slava. Trattano della storia dei popoli slavi e del loro dio Veles. Solo che questo testo è stato poi considerato un falso storico e ormai declassato a bizzaria senza valore documentario.

Un testo storicamente falso che dà il titolo a un libro fotografico (che include estratti del libro che l’ha ispirato, a confondere ulteriormente le acque) su una città la cui economia si basa sulla produzione di falsità o semi-verità.

Ho sentito incredulo raccontare questa storia dallo stesso Bendiksen, in uno Space di Twitter. Eravamo in una manciata di persone ad ascoltarlo ed è un peccato perché mai come in questo periodo la sua riflessione è attuale. Era il primo aprile, pochi giorni fa. Lo stesso Bendiksen raccontava che quello stesso giorno il World Press Photo gli aveva ritirato il premio che aveva ottenuto anni fa perché avevano scoperto che il suo Book of Veles conteneva foto manipolate e false. Il che è vero, mentre non è vero che il World Press Photo lo avesse penalizzato: era pur sempre il primo di aprile.

Bendiksen ha detto anche un’altra cosa decisamente più significativa in quell’occasione: ha detto che la fotografia (o forse parlava, più precisamente, del fotogiornalismo) non lo interessava più. Il fotogiornalismo per lui era ormai una parte marginale di un meccanismo comunicativo più grande.

Ricapitolando: un fotografo fa un lavoro su una città in cui si producono notizie false e lo chiama come un libro le cui basi storiche sono considerate false e produce foto che sono, a loro volta, false poiché manipolate con l’inserimento di personaggi in 3D in post produzione. Lui stesso racconta di come si sia effettivamente recato a Veles ma limitandosi a fotografare spazi e scorci vuoti che poi ha “animato” inserendo persone che non esistevano nella realtà.

Il suo libro è basato insomma su tre livelli di falsificazione, o meglio: su tre manifestazioni diverse del falso. Quello corrente e informativo, quello storico e infine quello documentario, cioè l’esito del suo lavoro editoriale.

Questa storia mi ha fatto ricordare un breve passo di The Game di Baricco. Parlava di fake news e diceva una cosa che spesso viene trascurata: ogni notizia falsa non è integralmente falsa ma contiene sempre un elemento di verità. Qualcosa di plausibile o verificabile, anche se inquinato da falsità e alterazioni, deve esistere, altrimenti nessuno crederebbe che una notizia, per quanto inverosimile, abbia una parvenza di plausibilità.

Ogni storia deve sembrare vera, non deve esserlo per forza.

Ogni storia, del resto, è raccontata e quindi alterata in origine. Si basa sempre sulla prospettiva dell’io narrante e più volte viene ripetuta, più si carica di dettagli e interpretazioni distanti dal fatto che descrive.

Il fascino intellettuale dell’operazione di Bendiksen è che l’alterazione della verità è elevata al cubo: non è un racconto sulla produzione di falsità ma è un racconto falsato che cita un testo storico falso e che contiene come unico elemento di verità l’esistenza di questa città nella Macedonia del Nord.

Che effettivamente esiste (ho controllato) e che è assurta alle cronache proprio per questo suo peculiare prodotto locale: quello di notizie false.

La sensazione con cui si rimane però è che l’intuizione di Bendiksen si traduca in un’operazione culturale molto più potente di quanto sembri a prima vista. Non è una burla, non è una provocazione e quando lui parla di superamento del fotogiornalismo come testimonianza storica eleva il suo lavoro a una dimensione diversa: quella di opera d’arte.

The Book of Veles è infatti una performance artistica (e, dicendolo, non voglio limitarne la portata o circoscriverlo a un ambito diverso da quello dell’attualità e della storia): in quanto opera d’arte — ma dovrei dire “d’Arte” — lo eleva anzi a un dominio temporale diverso. Il suo lavoro non descrive il presente ma il futuro. Lo immagina e lo fa vedere. Un futuro in cui i livelli di alterazione delle verità sono molteplici e dove le verità plausibili provengono da spazi temporali diversi (Il Libro di Veles dal passato, The Book of Veles dal presente). Dove infine, anzi, la Verità non esiste perché esiste solo il racconto, la parola, l’identificazione in una storia.

È curioso che lo strumento di comunicazione più potente mai inventato dall’uomo sia la storia, il racconto. E continua a esserlo e forse lo sarà per sempre.

L’uomo insomma non crede nella Verità ma crede solo nelle Storie che si racconta. E non bisognerebbe mai trascurarlo quando si afferma che una cosa è vera: una cosa in realtà non è vera di per sé ma è vera solo la plausibilità che le si attribuisce. Vogliamo insomma credere che lo sia, mentre quella non lo è e non deve per forza esserlo.

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