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Squarcio

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Un giorno ho capito che il tempo a cui penso è quello che resta, cioè il futuro. O anche: ho pensato che il futuro non è solo una proiezione o il dominio delle congetture, delle speranze e delle eventuali ansie ma ha anche una dimensione definita, cioè ha una natura. “Definita” non significa né precisa né determinata: significa che è fatto di una pasta particolare, ma ovviamente non se ne possono conoscere i confini. Il futuro è ciò che è di fronte, ciò che deve ancora accadere, il regno delle possibilità.

Il passato è una memoria ad accesso casuale: dalla memoria si estraggono unità particolari che rappresentano ricordi. Non si contiene tutto il passato ma solo alcune sue registrazioni: una giornata di 5 anni fa, una telefonata di 12 anni fa, un tramonto visto la scorsa primavera. Il futuro è una massa indistinta e compatta e densa (non ha ancora forma) mentre il passato è un archivio. Certe unità memorizzate non verranno mai più richiamate alla mente e osservate, certe altre invece sì. 

Alcune di queste unità hanno una particolare intensità: hanno colori più definiti, odori più chiari, suoni più saturi. Perché ne ricordo alcune? Il motivo è semplice: perché non sono solo memorie ma sono punti nodali della mia esistenza. Quando li ho vissuti però non lo sapevo. Io non saprei definire quegli avvenimenti che poi diventano luoghi della memoria se non come portali in cui le dimensioni del passato e del futuro si toccano, nel presente. 

Per esempio ricordo un giorno in cui fermai la macchina senza motivo e guardai il fiume scorrere e sull’argine opposto degli alberi. Era primavera, il cielo era sereno. Mi resi conto di essere totalmente indifferente alla Natura. Niente in particolare lo suggeriva ma tutto lo diceva. Ne fui sollevato e rasserenato: non avere alcuna importanza nell’ordine cosmico era liberatorio invece che deprimente. Essere una parte del tutto e contemporaneamente il centro di niente pone in una nuova prospettiva e sgrava di certe responsabilità.

Un’altra volta guardavo una piscina. Fu quando pensai che avrei dovuto nuotare. Dopo pochi giorni iniziai a farlo davvero. 

Non ho mai pianificato molto nella mia vita, non ho mai voluto intralciare i piani che il destino aveva per me, ammesso poi che li avesse. Quindi il fatto che i lembi del passato e del futuro possano toccarsi in un punto del presente non è solo un fenomeno metafisico esperibile del regno fisico: è anche una sorta di rappresentazione del destino. 

Il futuro che si manifesta è la forma con cui il destino esplode in bagliori improvvisi e imprevedibili.

Il problema semmai è vederli, è accorgersene. Se però penso a questi due avvenimenti mi rendo conto che sono accaduti in condizioni identiche: non stavo facendo niente se non guardare. Non stavo giudicando, non stavo pensando ad altro, non volevo essere in un altro luogo. Ero in un momento nel tempo in cui dovevo – evidentemente – trovarmi. Il futuro quindi è un treno che arriva al binario dove è previsto che tu ti trovi. In una stazione invisibile, a un orario sconosciuto. L’unica condizione è farsi trovare sul luogo al momento giusto.

Parlo di futuro perché questi due ricordi sono particolarmente significativi avendo rappresentato un punto nodale della mia vita. Dopo qualcosa è cambiato e i semi del cambiamento erano contenuti in quelle immagini rivelatesi in pochi istanti. Non ha molta importanza dire in cosa e perché sono stati punti di svolta: in fondo lo sono stati per me e l’interesse si ferma lì. Tanti altri attimi hanno corretto la mia traiettoria esistenziale, solo che non me ne sono mai reso conto. Questi invece li ho visti e, a ben vedere, non è un vantaggio da poco. Se dovessi scriverne una sceneggiatura della mia vita non potrei ometterli, sarebbero dei cardini della storia.

Altri li chiamerebbero epifanie: momenti in cui qualcosa si rivela. La condizione perché ciò avvenga è essere vigili, attenti, dediti solo all’osservazione, come io su quell’argine o come 

Silvio Castelletti racconta di Murakami, di quando cioè, assistendo a una partita di baseball, il suono che la mazza provocò all’impatto della palla gli fece decidere che avrebbe scritto un romanzo. 

In that instant, for no reason and based on no ground whatsoever, it suddenly struck me: I think I can write a novel.”

Disse “Penso di poter scrivere un romanzo”, e non “penso che scriverò un romanzo”. C’è una differenza sostanziale (il linguaggio è uno strumento preciso): la formulazione che adotta Murakami contiene la possibilità e non la certezza, quindi contiene il futuro. Del resto, che certezza avrebbe mai potuto avere? A quel punto della sua vita non era ancora uno scrittore e niente del suo vissuto avrebbe potuto decretare quello svolgimento della sua trama esistenziale. Eppure a una partita di baseball Murakami capì che sarebbe diventato scrittore. O almeno che avrebbe potuto esserlo. I lembi di passato e futuro si toccarono, il portale si aprì e il destino si manifestò.

Non si giunge in questi luoghi e in determinati momenti per caso. Non che vi sia bisogno di immaginare che sia una mano divina a rivelare qualcosa: più umanamente, la vita ti ci porta. Esattamente come ora, per me che scrivo o per te, lettore che leggi: 

Ora, in questo preciso istante, entrambi siamo esattamente dove la vita ci ha condotti. La somma degli attimi che compongono il passato ci ha condotti qui. Il presente è il risultato di un’equazione.

Infine: questi attimi hanno un’altra particolarità, cui prima accennavo. Non sono riconoscibili se non a posteriori. Può darsi che, nell’istante in cui si manifestano, la mente li percepisca come diversamente significativi ma la loro natura cardinale (nel senso che qualcosa, in quel punto temporale, inizia a ruotare e cambiare direzione) è percepibile appena. Sono attimi che alterano il reale, sono perturbazioni nel campo, sono correnti e onde provenienti da altrove.

Sono gli attimi che diventano memorie che rifulgono solo dopo un po’ di tempo. Quando qualcosa è cambiato ci si guarda indietro, ci si accorge che la direzione è diversa e, se lo sguardo della mente penetra abbastanza nella memoria, si vede con chiarezza che la strada piegava proprio in quel punto.

Il fenomeno richiede condizioni precise per accadere: serve lo spazio interiore, serve la mente sgombra, servono gli occhi per vedere: un albero dall’altra parte del fiume, una piscina, la palla da baseball che colpisce una mazza.

La condizione che accomuna queste esperienze è che ci si accorge di qualcosa perché ci si fa vuoti (pronti ad accogliere) e si indugia nell’osservazione. L’essere nel presente richiede di non pensare né al passato né al futuro. Allora ci si può riempire di ogni atomo del presente. 

Quel giorno sull’argine mi accorsi di un altro particolare: il fiume scorreva nel senso opposto a quello che avevo sempre pensato. Per una vita intera avevo visto quel fiume senza mai vederlo davvero. Forse il futuro si lascia intravedere solo quando si è predisposti a osservare avendo fatto il vuoto nella mente. Solo allora, finalmente, tutto ci può attraversare e lasciare i sedimenti di ciò che non è ancora e che presto sarà.

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