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Personal branding

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“Mondovino” è un bel documentario di qualche anno fa. Parlava del mercato del vino e di come questa bevanda avesse assunto un’importanza impensabile anni prima. Da buon documentario riportava anche il pensiero di chi era critico. La tesi era un po’ questa: la qualità media del vino è indiscutibilmente migliorata e gran parte del merito va agli esperti e critici che, oltre che a scrivere per riviste di settore, fanno anche da consulenti per le grandi cantine. Che male c’è a dare consigli? Nessuno, se non per il fatto che i consulenti erano poche persone molto competenti a cui si rivolgeva chi produceva il vino. Per farla breve, la critica era la seguente: queste persone fanno consulenze e suggeriscono di fare il vino come piace a loro ed essendo in pochi li fanno assomigliare un po’ tutti, cioè li addomesticano al loro palato. Il risultato è che i vini erano mediamente molto migliorati ma si assomigliavano fra di loro. Non avevano più il loro carattere, che poteva essere anche un pessimo carattere, intendiamoci, perché il vino è una delle poche cose accettate anche se ha un pessimo carattere.

I critici/consulenti insomma era i Grandi Normalizzatori: servivano ad addomesticare la peculiarità e le sfumature caratteriali dei grandi vini per renderli più gradevoli e adatti a un pubblico internazionale.

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Mi è tornato in mente perché ultimamente — grazie a Clubhouse — sto sentendo parlare molti digital marketer. Mi infilo nelle loro room e mi metto col favore dell’ombra ad ascoltarli. Sarò sincero: a volte li trovo interessanti ma molto più spesso li trovo allucinanti, a tratti deprimenti.

Ho sentito per esempio spesso parlare di personal branding, un’espressione che credevo fosse sparita e invece guardala lì, spavalda più che mai. E poi di monetizzazione, o monetarizzazione. Insomma, questi sono arrivati su una nuova piattaforma e subito si sono chiesti come farci i soldi. E io li ascolto.

La cosa più interessante dello zombie del personal branding è che, oltre a essere una tesi che mi auguravo fosse morta ma invece no, è basata su un rispetto maniacale di regole, in verità abbastanza semplici: fai le foto così o colà, segui queste discussioni, posta ogni tot, guarda le tendenze (li sento già indignarsi, i digital marketer, lasciatemi parlare, è per il vostro bene). Insomma: più parlavano, più mi rendevo conto che pareva di assistere a una scena biblica in cui i sacerdoti (i DM) dicevano ai fedeli (i “creatori” o “creativi” come si chiamano oggi) come affermare il loro personal brand rispettando le regole del dio algoritmo.

Perché, ridotto all’essenza, di questo si tratta: di giocare seguendo alcune regole. Facile.
Questa logica è un’ennesima applicazione della Grande Normalizzazione e i risultati si vedono: milioni di profili identici, gestiti da creativi (sic) indistinguibili gli uni dagli altri. Che producono (non creano!) sempre la stessa roba.

Ora: io non dico che non vi sia bisogno di personal branding. Il concetto è anche interessante e in un mondo basato sul commercio di qualsiasi cosa ha una sua evidente collocazione.

Allora dirò una cosa a difesa di questa arte divinatoria: mi rifarò al suo significato, per tracciare un ritorno alle origini.

“Personal” è il termine su cui ci si dovrebbe concentrare. E mi piace interpretarlo come “individuale”.

Mi pare insomma che l’unico consiglio davvero giusto e sensato che si debba dare a un creativo (ri-sic) è “Do your shit”. Fai le cose come pensi che vadano fatte. Falle a modo tuo. Dille con la tua voce, mostrale con il tuo punto di vista. Se ce l’hai, s’intende, perché esprimerti come fanno altri milioni di persone non è esattamente un punto di vista ed è l’esatto opposto dell’affermazione individuale: significa stemperare la propria personalità in un mare di altre individualità sino a diluirla e farla sparire.

Il carattere è qualcosa di personale, che distingue. Significa etimologicamente “segno, incisione”. Ognuno ha il suo e rinunciarci per amalgamarsi a ciò che piace alla massa è una perdita del proprio carattere, non una sua affermazione.

Come quello di quei vini, che magari avevano un pessimo carattere ma ce l’avevano, finché non gliel’han fatto perdere per piacere un po’ a tutti o alla media di tutti. Alla media normalizzata, insomma.

Bell’affare.

Do your shit. Ecco il personal branding.

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