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Nirvana 

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Nirvana 

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Un giorno ho raggiunto il Nirvana, ma dalla parte opposta. O da una parte diversa. 

Non ci sono arrivato per elevazione o sublimazione dei sensi o qualsiasi cosa serva all’uopo: ci sono arrivato perché la mia mente è entrata in protezione, come se fosse un’apparecchiatura elettrica. Per non bruciarsi, ha annullato le interferenze, ha chiuso i circuiti. Si è protetta, appunto.

Non avendo mai raggiunto il Nirvana attraverso i percorsi classici (meditazione, illuminazione, digiuno) non so dire se quello in cui mi sono trovato fosse il Nirvana di Siddhartha o uno simile. Non so neanche se ne esista solo uno o diversi, forse chiunque lo raggiunga ne ha una versione e una visione personali. Questo è il mio Nirvana e non lo si può raggiungere con un metodo particolare.

Non è evocato, non è provocato: accade, e basta.

Dicevo: l’ho raggiunto da un’altra parte e partendo da una condizione diversa. Se il Nirvana è una montagna da scalare, c’è chi l’affronta seguendo un percorso tracciato. Io ci sono arrivato da un sentiero che non sapevo nemmeno di star percorrendo. 

Mi è capitato altre volte – sono abituato al Nirvana, anche se ogni volta che si è materializzato attorno e dentro di me non l’ho riconosciuto come tale. Come dicevo, il Nirvana accade, non è evocato o provocato. Almeno per me. 

A questo punto è giusto definire la condizione di partenza, ed è quella di un uomo contemporaneo – ma potrebbe anche essere una donna, solo che io posso parlare di me e basta – che deve badare a diverse cose, da cui derivano diversi problemi, che generano perturbazioni mentali. Non tempeste né terremoti: fortunatamente non sono una persona ansiosa o so tenere a bada le diverse faccende in cui sono affaccendato. Ciò non significa che le possa trattare ignorandole: le vedo e cerco di risolverle – finché a un certo punto entro nel Nirvana e allora mi chiedo se è davvero così importante risolvere questo o quello. 

Senza entrare nel merito dei fattori scatenanti (son fatti miei e non aggiungono niente alla trattazione), potrei generalizzare dicendo che si tratta di un po’ di tutto: lavoro, contesto sociale, gratificazioni di vario genere. Voglio però essere diretto e onesto e, pur senza citare casi particolari, dire da cosa deriva questo vorticoso e disorientante stato che ha generato il Nirvana. 

È fatto di invidia, un po’ di frustrazione, fatica, il mese di novembre (il più crudele di tutti), l’età e basta, a occhio. La salute? Tutto bene, grazie. Ho anche smesso di bere e faccio molto moto, mai stato meglio, a parte la faccia che sta cadendo a pezzi, ma quella è l’età. 

Dicevo: c’è una voce in me (c’è in tutti) che non se ne sta mai zitta e che fa notare ogni riconoscimento non riconosciuto, ogni successo altrui, ogni traguardo mancato, ogni mancanza, in genere. Una contabilità che si concentra solo sulle passività e che viene solertemente presentata, generando quel che deve generare: uno stato d’animo malmostoso, per quanto ben tenuto a bada dalla fatica fisica e dalla meditazione

Il problema dell’invidia o della gelosia per le vite altrui è che occupano spazio mentale, oltre a non essere per niente utili. È la voce stridula di questo odioso contabile interiore che fa notare questo e quello e tira una riga alla fine, dopo la quale ci sono solo valori negativi. O quasi.

A bilanciare questo stato d’animo composito e variopinto (a tinte cupe) c’è l’orgoglio. Il mio caro e utile servitore impone una regola sola che ho sempre seguito: 

Se devi lamentarti, fallo solo con te stesso e per non più di 10-15 minuti.

La cosa si compone così: qualcosa o qualcuno mi rendono invidioso, constato di essere umano e di provare quindi anche queste emozioni ma il provarle mi crea disagio, perché sono anche presuntuoso (le ho tutte) ed è inaccettabile che io possa essere invidioso perché significherebbe paragonarmi a qualcuno o qualcosa, mentre io sono assoluto. Detta così suona magniloquente e proterva: meglio dire che non mi paragono mai a nessuno, che da solo io e il mio Ego ci bastiamo. 

Durante l’esplosione pirotecnico-emotiva di questo stato (invisibile all’esterno) mi trascino werterianamente e dolentemente e poi mi ricompongo, tornando a essere la persona meno invidiosa del mondo – non perché lo sia davvero ma solo perché è indecoroso esserlo (quanto ottocento sopravvive in me). In verità normalmente non sono proprio invidioso di niente e di nessuno: non me ne frega niente, l’arte del not giving a fuck, quella roba lì.

E questa è solo una parte della miscela che genera lo stato d’animo immediatamente precedente al Nirvana. A questo si aggiungano poi gli accidenti correnti, le guerre e le piaghe e le preoccupazioni che devono impegnare ogni animo sensibile (al diavolo la cultura cattolica e il calvinismo) e si ottiene la condizione di prostrazione romantica (nel senso di finale, inesplicabile, definitiva): un deserto buio, anche se fuori c’è il sole. 

A questo punto userò una metafora che rende ancora meglio l’idea del mio ingresso nel Nirvana: quando si prende un aereo e ci son nuvole minacciose sopra di noi, e si guadagna quota finché non ci si infila in quelle nuvole e si fa tutto latteo e solido e scuro e magari ci sono tuoni e fulmini e presagi di precipitazioni e di precipitarsi di aerei (quello a cui si è a bordo, ovviamente) e si continua a salire. L’aereo è scosso e si sconquassa, si agita e vibra e tutti i santi fan del loro meglio per fargli superare quel denso strato di melassa vaporosa altrimenti chiamata “insieme di nuvole” e a un certo punto puf, si viene sputati oltre, come se si fosse sfuggiti da una muta di cani affamati e rabbiosi che è rimasta laggiù, sopra quelle nuvole grigie. 
Adesso c’è il sole, c’è una bellissima giornata e l’aria è rarefatta e immobile. L’aereo procede come una barca incantata su un fiume invisibile: non una scossa, non un sussulto. 

Ecco: questo è il mio Nirvana.

Il mio Nirvana è uno stato mentale in cui ho la consapevolezza di non poterci far niente, e allora sono finalmente leggero e felice.

Si badi: non è disinteresse, non è egoismo. Le nuvole sono là sotto e le vedo, però non mi coinvolgono più, non ci sono in mezzo. 

Si tratta insomma di uno stato di consapevole equidistanza dalle cose e dagli accidenti, basato sulla saggia constatazione che non ci si può far molto, che molto si è fatto e soprattutto che non si può impazzire. Il mio Nirvana è “Non ci posso impazzire”. 

Purtroppo non posso vendere questa illuminazione come un corso online, non posso farmi guru e convincere nessuno che questa è la via perché non riesco a provocarmi da solo questo stato e perché non lo farei mai: non sono così cialtrone da speculare sulle mancanze della gente. 

Ce l’ho e basta. Mi capita e basta. A mitigare l’invidia (oh sì, adesso l’invidia non è più mia!) di chi ne vorrebbe conoscere il segreto posso solo dire che comunque non è trascurabile la fase che vi conduce, che è un modo per dire che ci si sente decisamente da schifo prima ma poi l’aereo supera la perturbazione e il sole splende. 

Questo è il mio Nirvana, e lo posso rappresentare solo aprendo le braccia, come a dire: 

Cosa ci posso fare in fondo? Va così.

Guarda che sole.

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