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My Name is Albert Ayler

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My Name is Albert Ayler

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Albert Ayler mi si presentò così, un giorno. Non per nome e cognome ovviamente, ma suonando Summertime. “La sua Summertime”, dovrei dire, perché la sua esecuzione di Summertime è una cosa mai sentita.

Facciamo un piccolo passo indietro.
Summertime è uno dei brani di Gershwin più famosi della storia. Nella struttura e nelle parole è una ninna nanna cantata a un bambino che si sta per addormentare. Le parole non sono però quelle di una ninna nanna:

Summertime and the livin’ is easy
Fish are jumpin’ and the cotton is high
Your daddy’s rich and your ma is good lookin’
So hush, little baby, don’t you cry

Pare dire “Dormi, non hai niente di cui preoccuparti perché fai parte di una famiglia facoltosa. Non hai niente da temere”. Rassicurante di certo ma capace anche di tratteggiare in poche righe due universi diversi: quello sicuro di chi ha potere economico e quello incerto di chi serve i primi, non avendo alcuna certezza. “Tu sei al sicuro” sembra insomma dire “ma io no”.

In fondo cosa può capire un bambino che non riesce ad addormentarsi da solo? Forse nemmeno quelle parole. Però la musica sì, quella può ben capirla o sentirla.

Gershwin riuscì in uno dei miracoli musicali che a volte capitano, e ai geni più spesso che ad altri: trovò un equilibrio perfetto fra il tono sognante di una lullaby e gli accenni tempestosi di qualcosa di minaccioso che aleggia nell’aria. Ascoltandola si riconosce la struttura della lullaby ma si sente anche un’atmosfera inquientante gonfiarsi dietro, poco prima dell’orizzonte.

Non è un caso che Summertime sia anche una delle canzoni più cantate e reinterpretate. Le più celebri sono la versione di Billie Holiday, quella di Mahaila Jackson e quella di Miles Davis. Quella di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong è forse la più fedele non tanto all’orchestrazione quanto allo spirito di Gershwin: ha lo stesso tono onirico e sospeso, come quello di una calda giornata estiva in cui le possibilità sono sopraffatte dall’afa. E poi sono Ella Fitzgerald e Armstrong, di cosa stiamo parlando?

Poi c’è l’esecuzione di Albert Ayler.

Bisogna fare un piccolo sforzo di immaginazione per capire che forza selvaggia ha il modo di suonarla di Ayler. Basti pensare che la prima comprensibile reazione che se ne può avere è “Questo la sta violentando”. In effetti la melodia è ancora riconoscibile ma è il suono che Ayler le incide dentro che sconvolge. Non è esattamente un suono: è un grido di dolore. La forza della sua esecuzione è che decide di prendere una parte ben precisa: quella di chi canta, cioè di chi soffre. Ed è un canto piangente, rotto e primitivo, nel senso che non ha mediazione e consolazione. Un lamento è una richiesta di attenzione ma questo pianto è gridato, non ha appello, non ha cura.

La si può odiare e rifiutare. Oppure la si può ascoltare, cogliendo le sfumature fra un picco e un sussurro e chiedendosi — per la prima volta da quando si ascolta Summertime — se quella non sia l’esecuzione più giusta. Non che le altre siano quelle giuste, ma nemmeno che questa sia sbagliata. Di certo è una possibile, di certo si può anche pensare che quella ninna nanna non sia un canto indifferente a chi la canta ma sia, anzi, proprio il canto di chi la canta.

Ayler decide di suonare quelle parole con la voce e la vita di chi le pronuncia. Di chi tenta di rassicurare sapendo di non poter neppure rassicurare se stesso.

Lo fa con il suo sax tenore e pare voler sbagliare ogni nota (che, naturalmente, non sbaglia) o esagerandone la durata, lacerando ogni battuta e tirandola oltre i suoi limiti. La voce del suo strumento è quella di chi canta quella lullaby e, improvvisamente, in quelle grida c’è tutto il dolore e la frustrazione di un popolo e di una donna che lo racconta.

C’è un altro brano — fra quelli, di numero limitatissimo, che conosco — che mi viene in mente ascoltando questa Summertime: è You’ve Got to Have Freedom di Pharoah Sanders. L’uso del sax tenore è quasi simile, anche se il mood del brano è più vitale, di certo non dolente né meditativo. Sanders usa una voce simile gridando un proclama politico mentre Ayler concentra la potenza vocale in un canto intimo che esplode a tratti. Sanders eroga una potenza continua, Ayler è più raccolto, pur avendo la stessa energia. L’arma è la stessa, verrebbe da pensare, ma è usata in modi diversi. Una bellissima arma, che non uccide nessuno.

Insomma: Ayler registra nel 1964 la sua Summertime, Pharoah Sanders nel 1987 la sua You’ve Got To Have Freedom. I due brani non c’entrano l’uno con l’altro mentre c’entrano le vite di chi li suonava. Ayler diceva che “Coltrane era il Padre, Pharaoh il Figlio, e io lo Spirito Santo”. Coltrane fu uno dei più convinti sostenitori di Ayler, specialmente presso la sua casa discografica Impulse, che pubblicò diversi suoi lavori che non ebbero però molto successo.

Ayler è considerato un jazzista free e già la sua Summertime qualche sospetto può farlo venire. Alcuni suoi lavori sono impervi e di difficile ascolto e, come molto free jazz, hanno esplorato strade che non hanno portato che a se stesse. Chi vi si è avventurato è un viaggiatore che non ha anticipato nessuno ma che è andato in territori sconosciuti (queste mie parole mi varranno la fatwa della temutissima chiesa del Free Jazz, già lo so).

Quando Coltrane sapeva di essere prossimo alla morte (morì di cancro al fegato a 40 anni nel 1967) volle che lui e Ornette Coleman suonassero al suo funerale. Poco meno di 3 anni dopo, nel 1970, Ayler morì affogato nell’East River, si dice per suicidio da stato depressivo.

Mi son sempre chiesto cosa può aver provato chi ascoltò Summertime di Ayler per la prima volta: orrore? Sdegno? Capì subito la potenza e la verità di quel canto? Mi immagino che abbiano potuto provare emozioni simili a chi vide qualche decennio dopo per la prima volta un quadro di Basquiat.

Credo sia qualcosa di simile alla constatazione che là sotto c’è una forza capace di squarciare la crosta terrestre. Ci sono alcuni sismografi che colgono queste vibrazioni con decenni di anticipo. Registrano forze primitive e precedenti al logos. Le resistituiscono come un grido di dolore. Ayler era uno di questi.

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