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Io

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Quel giorno tornavo a casa in auto. Senza pensarci molto e decidendo all’ultimo istante, deviai. Non continuai lungo l’usuale strada ma imboccai quella dell’argine. Non so perché lo feci ma so che volevo farlo. E così fu. 

Parcheggiai l’auto e scesi sulla sponda del fiume, sino ad arrivare a una piccola spiaggia. Guardai il fiume. Mi stupii per l’ennesima volta a constatare che – nonostante viva in questi luoghi da decenni – non avrei mai saputo dire a memoria in che senso scorresse. Constatai che scorreva esattamente in senso inverso a quanto pensassi. Per indovinare il senso di scorrimento dovrei semplicemente dire il contrario di quello che penso sia, e ci prenderei – pensai. 

Poi guardai la sponda opposta. C’erano pochi alberi, se non ricordo male era inverno. Non avevano la fronda, non c’erano foglie sui rami. O forse ricordo quell’immagine perché scattai qualche foto e quindi ricordo la foto ma non ha importanza. Quello che ha importanza è cosa sentii e come mi sentii. 

Osservavo la natura, o lo spettacolo naturale. Per la prima volta percepii chiaramente di essere totalmente indifferente alla natura. È una sensazione che si può razionalizzare, la si può pensare e capire ma percepirla improvvisamente e quasi violentemente è diverso perché non è l’esito di un ragionamento: è una verità che appare in tutta la sua inequivocabile evidenza. 

Mi ripetevo che alla Natura di me non interessava niente, perché ero infinitamente piccolo nei suoi confronti ed ero parte di lei. Perché mai avrebbe dovuto darmi più importanza di tutto il resto? Ero un suo oggetto, una sua manifestazione, un elemento. 

Questo pensiero mi diede una grande calma. Non pensai che l’essere una parte del tutto fosse disperante. Non pensai che esserle indifferente fosse sconfortante. Anzi: mi sentii in pace con l’universo, perché avevo capito di esserne una parte. Di certo non il padrone, né qualcosa o qualcuno di più importante rispetto a qualcos’altro o qualcun altro.

Ero nella e della Natura. Scomparivo a me stesso. Finalmente.

Mi diverto a sistemare tutti i pensieri lunghi che si possono fare e faccio secondo la durata e quindi la profondità: tanto più un pensiero è duraturo (e lungo, quindi), tanto più è profondo. 

Non avevo mai capito fino a oggi che ce n’è uno che di gran lunga è più lungo di tutti gli altri, ed è il pensiero di me stesso, o l’Io, come lo chiamerebbero la filosofia o Freud. Ci penso (ci pensiamo, tutti, chi più, chi meno) da quando ho isolato la percezione di me stesso dal resto del mondo; da quando, insomma, ho capito che c’erano un Io e un Resto del Mondo, e questo resto comprendeva e comprende qualsiasi cosa o persona che non sono io.

Le relazioni umane sono complicate e non c’è motivo per cui la più importante in assoluto – quella con noi stessi – non lo sia altrettanto. Fra le possibili e necessarie relazioni è però quella che non può interrompersi. Non si può decidere di non volerne più sapere di noi stessi, non si può interrompere la conversazione con il proprio Io, non si può mettere a tacere la voce che ci parla in testa. O sì?

Si può, in altre parole, ridefinire il rapporto che abbiamo con noi stessi, depotenziandolo magari, abbassando il volume di questo dialogo interiore, togliendogli insomma importanza? 

Ultimamente me lo sto chiedendo spesso e la meditazione mi ha aiutato anche in questo caso a mettere a fuoco questa necessità. Non l’ha fatto razionalmente giacché non ha niente di razionale. L’ha fatto indirettamente, e cioè da quando – a un certo punto, meditando – ho iniziato ad avere fastidio per il fatto che le visualizzazioni che la mia mente elaborava spontaneamente avevano sempre un punto di vista: il mio. 

Pensiamo e immaginiamo in termini cinematografici, cioè assumendo come punto di vista il nostro, quello che ci è naturalmente familiare. Pensiamo, per usare il parallelo del cinema, in soggettiva. 

Da un certo punto in poi durante le mie meditazioni ho avuto fastidio per il fatto che l’osservatore delle visualizzazioni che avevo fossi sempre io. Volevo spostarmi da dietro l’obiettivo, volevo scomparire e vedere dall’esterno. Volevo osservare senza essere il soggetto osservante. È un paradosso e probabilmente è impossibile farlo. 

Come è possibile osservare senza essere contemporaneamente l’osservatore? 

Non so come si faccia né se si possa farlo: so solo che mi interessava riuscirci. 

Fin qui, senza successo. 

In verità – lo capii solo dopo – cercavo di non essere me stesso o volevo dimenticarmi di me stesso per vedere la realtà o la vita (non so nemmeno bene cosa) da un punto di vista universale o quantomeno non soggettivo, cioè non mio. 

Ho già citato più volte un libro che ho trovato molto interessante e che colloco nella sezione della mia personale biblioteca fra quelli relativi alla meditazione e al pensiero, ed è “Come cambiare la tua mente” di Michael Pollan. Pollan parla solo tangenzialmente della meditazione, o meglio: la cita per spiegare che alcune sostanze psicotrope come l’LSD provocano alterazioni a livello biochimico che sono paragonabili – anche se in misura molto più potente – a quelle prodotte durante la meditazione.

Ma è un altro il punto di quel libro su cui mi voglio soffermare, ed è quello che riguarda alcuni effetti, in particolare dell’LSD, e cioè la disgregazione dell’Io. Si tratta di uno stato indotto in cui il soggetto (in forme diverse a seconda di chi assume queste sostanze) vede il proprio corpo polverizzarsi, demolecolarizzarsi, scomparire. Alcuni raccontano che riescono a vedersi solo una mano, che tutto il resto è svanito. 

Questa sensazione – tremenda e angosciante per molti, quanto meno se non fosse indotta e reversibile – realizza la condizione di distruzione del simulacro dell’Io: sebbene a livello conscio tutti o quasi percepiamo che l’’Io è un’entità astratta e senza una forma particolare, identificarlo con il proprio corpo è una sintesi naturale e comprensibile. In altre parole: sappiamo che l’Io non è il nostro corpo ma al nostro corpo ascriviamo una possibile sembianza dell’Io. Se deve avere una forma e un’immagine insomma, va bene che assomigli al nostro corpo, che sia anzi, il nostro corpo. 

Il primo passo per non avere un punto di vista è quindi quello di disgregarsi, di non essere più un corpo. Questo – pensavo insomma – mi aiuterebbe a cercare di visualizzare la realtà al di là dei miei occhi e del mio punto di vista: potrei finalmente vederla nella sua universalità, a prescindere da me stesso.

A questo punto uno potrebbe chiedersi perché lo voglio, perché voglio scomparire?

Non si tratta di scomparire e non c’entra niente con la morte. È più un’assenza presente, una mancanza partecipata. Del resto vorrei vedere tutto senza vedere con gli occhi, vorrei percepire il mondo senza il filtro di me stesso, quindi senza accogliere con gli occhi questa visione e senza elaborarla nella mente.

Credo di voler “scomparire” perché sono stufo di parlare a me stesso e di servire me stesso. C’è una parte della mia mente che è costantemente interpellata dall’Io, con un’insistenza insopportabile. Fa domande del tipo “Hai fatto abbastanza?”, “Hai imparato qualcosa di nuovo?”, “Sei stato così o colà?”. Ho il sospetto che voglia solo rassicurazioni, che voglia sentirsi importante, che abbia sempre bisogno di alimentare il culto di se stessa. L’ego del mio Io, di quello si tratta. Lo sopporto sempre meno. 

Insomma, quando pensavo ormai rassegnato che si trattasse di una presenza ineliminabile, meditando ho sentito l’urgenza di togliermi l’Io da davanti, per farmi vedere meglio cosa c’è fuori e oltre.

A proposito di Io, Carlo Emilio Gadda scriveva in La cognizione del dolore:

L’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero.

Ci sono frasi che leggi al momento opportuno, che è generalmente quando la tua mente è pronta a capirle. O magari le interpreta per come meglio le pare. Magari Gadda ne faceva solo una questione grammaticale e invece per me questo pronome è diventato esistenziale. Quell’Io di cui parla – ho pensato, mi sono convinto – è proprio il mio Io e io volevo e voglio eliminare quel pidocchio del pensiero. 

Non nego che l’Io abbia un’importanza capitale: in fondo gli devo anche il fatto di essere arrivato a volermene sbarazzare, o quanto meno di farlo tacere. Se non fosse così potente e presente non mi sarei mai accorto che ne voglio fare a meno, almeno per un po’.

Poi mi chiedo se non sia una sua stessa macchinazione: è così forte da avermi fatto credere che ne voglio fare a meno, pur tramando esso stesso per farmelo credere. Ma che ne so in fondo. Non è uno struggimento, è un esperimento: voglio abbassare il volume, voglio togliergli un po’ la voce.

O forse voglio solo diventare uno di quegli alberi che guardavo, un giorno di tanti anni fa, e che mi avevano sussurrato quanto gli fossi indifferente. Forse voglio solo diluirmi nel tutto e ritornare natura.

Essere un albero, sarà questo il senso?

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