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Assoluto

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Assoluto

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Una volta scrivevo recensioni di libri o di film. Ne scrivo ancora, anche se raramente. Avevo e ho due regole:

  1. Scrivere solo di ciò che ritengo interessante e penso sia utile condividere
  2. Cercare di cogliere l’essenza di quelle opere, indipendentemente da chi le ha create.

La prima regola è semplice, quasi scontata. La seconda lo è un po’ meno, perché comporta l’impiego di un tipo di critica che non può usare uno degli strumenti più efficaci, ossia quello del paragone con opere simili. La critica comparativa stabilisce che qualcosa ha valore artistico in relazione a qualcos’altro. Le intenzioni sono nobili: partire dal presupposto che ogni opera non è assoluta, non vive in un vuoto in cui non può e non deve confrontarsi con altre opere, però può facilmente scadere in giudizi ingiusti e affrettati. Io non volevo e non voglio questa roba: io cerco l’assoluto.

La ricerca dell’assoluto può sembrare un atteggiamento aristocratico e presuntuoso ma in realtà nasce dal rispetto delle opere d’arte. È vero che ognuna di esse può e deve essere contestualizzata e ha ascendenze e discendenze nel tempo in cui è nata, ma credo che ognuna – o almeno le più alte – abbiano anche un valore che prescinde dalla loro collocazione temporale: un valore assoluto.

Del resto “assoluto” significa proprio “sciolto da ogni vincolo”, cioè slegato dal contesto. Per questo mi pare rispettoso valutare un’opera di ingegno come se le sue qualità non derivassero dalla luce riflessa che ricevono da altre opere, né che sia necessario che il contesto le definisca e le spieghi.

Operare questo trattamento su di loro – cioè individuarne l’origine assoluta, se esiste – significa collocarle non solo fuori da un contesto ma soprattutto fuori dal tempo: se un’opera non ha necessità di essere compresa e apprezzata poiché appartenente a un certo contesto storico, significa che ha una qualità che trascende la transitorietà della Storia e dei fatti che la compongono: vive in una dimensione esterna al tempo, quindi in una dimensione a sua volta assoluta.

Non che con le mie critiche pensassi di individuare ogni opera che ne è capace, ma trovavo più interessante provare a capire se quello che mi aveva incuriosito o fatto riflettere ci fosse riuscito perché non aveva qualità transeunte ma eterne. O lunghe, per restare nell’ambito del Pensiero Lungo.

In altre parole, mi ha sempre affascinato la permanenza delle cose e dei loro significati, cioè quella che definisco la latitudine di significato, ossia quanto ciò che esprimono o a cui alludono ha la capacità di trascendere i confini temporali per giungere a dimensioni più ampie, quasi eterne.

In verità questo tipo di critica ha anche un aspetto pratico e, se vogliamo, furbo: non avevo e non ho molta voglia di studiare il contesto e allora mi sono convinto che sia relativamente importante. Non è del tutto pigrizia mentale: studiare mi piace assai e non mi ci sottraggo mai. Penso però che, più indugio sulla ricerca dei motivi che mi fanno pensare che un’opera sia assoluta, più mi sfugge l’essenza, il perché ciò avvenga.

Leggendo, ascoltando, guardando qualcosa ho l’intuizione che la sua qualità sia particolare – assoluta, appunto – e la collocazione nel contesto rischia di oscurare questa sua peculiarità, sino a giustificarne il valore per l’appartenenza a una certa scena storica e non invece a prescindere da essa.

Come si può capire, il tema del tempo è così monumentale per me che tento sempre di sfuggirvi: cerco ciò che non ne ha bisogno (che può esistere al di fuori di esso) perché ne riconosco il potere. D’altro canto, tempo e gravità sono le due forze a cui l’essere umano non può fuggire e che non può negare né governare. Può solo tentare di accomodarcisi dentro o sopra, sperando di non esserne schiacciato.

Time is the fire in which we burn.
(Delmore Schwartz)

Non sapevo chi fosse Delmore Schwartz, ho scoperto poi che era un poeta americano che ha scritto questo verso che trovo perfetto: il tempo è un fuoco che ci consuma. Ecco spiegato perché cerco strade laterali per fuggire alla combustione, ben sapendo che non posso scappare all’infinito, che il tempo mi consumerà, come consuma qualsiasi essere umano.

Cercare ciò che fugge al dominio del tempo è insomma un’esigenza esistenziale, o almeno lo è avere l’illusione che esista qualcosa che non è soggetto. L’assoluto, appunto.

In verità questa mia particolare ricerca (del senso assoluto delle cose, più che di quello relativo e contestuale) nasce da un’altra constatazione: che superata una certa fase della vita, ogni cosa che ci accade, che vediamo, sentiamo, tocchiamo e, insomma, esperiamo viene sempre valutata in funzione di una magica età in cui facemmo certe esperienze, cioè quelle formative.

Un esempio sono i film o le musiche ascoltate in adolescenza, specie quelle che hanno, per qualità e natura, la capacità di formare il gusto delle persone. Premesso che credo che il gusto non sia propriamente deciso dalle esperienze estetiche e artistiche che si vivono quanto rappresenti piuttosto la rivelazione della propria intima natura (il gusto non è un abito simbolico che si indossa ma è la forma che abbiamo quando siamo nudi), è indubbio che alcune opere riverberino in noi con particolare forza e precisione: un libro, un film, una musica.

Ebbene, queste opere compongono un corpus solido e indistruttibile di convinzioni su ciò che ha valore intellettuale e artistico. I film di Kubrick, la musica classica, certi libri: ogni esperienza della stessa natura che si fa in età adulta viene – anche inconsciamente – paragonata a questo nocciolo indistruttibile di certezze sulla qualità artistica.

C’è una spiegazione psicologica a tutto ciò, l’ho letta ma non saprei ritrovarla: ha a che fare con il potere rivelatore di queste opere o meglio, con la forza che hanno esercitato quando sono state sperimentate la prima volta: è l’estasi dell’esperienza artistica, dell’epifania che rivela e illumina. Quando è vissuta in giovane età ha una forza che difficilmente può ripetersi perché accade per la prima volta, quindi ha l’impeto della novità.

Accettato che non possa più ripetersi, è giusto accogliere e giudicare ogni nuova opera d’ingegno o artistica mettendola sempre a confronto con quel sistema di riferimento costruito decenni prima? Significa negare che possa esistere l’evoluzione e pensare che tutto si ripeta, senza nemmeno significative variazioni ma anzi: impoverendosi in qualità e significato.

A un certo punto della mia vita ho rifiutato questa modalità, o almeno ho ricercato un’altra via: quella che stima il senso delle cose – o cerca di farlo – indipendentemente dal paragone con altre già sperimentate. Un criterio di giudizio che non ha riferimenti e parametri, che non si basa sulla definizione di qualità in relazione ad altre. Che non paragona ogni film uscito dopo 2001 Odissea nello Spazio a 2001 Odissea nello spazio, come se quel film avesse detto tutto ciò che c’era da dire su tutto, o almeno sui film di fantascienza. (ho scelto questo film per dire di un film incontestabilmente considerato un capolavoro).

In verità siamo molto legati a questo nucleo solido perché è un riferimento e dà sicurezza. È fermo nel tempo ed è confortante.

Si tratta però di un inganno. Quelle opere sono state significative ma restano tali solo nel ricordo (cioè nel flusso del tempo) perché non vengono volutamente mai o raramente rivalutate, nel senso di “valutate un’altra volta”. Il timore che il ricordo della loro qualità fondante sia più forte della loro reale qualità è troppo inquietante: potrebbe distruggerne la forza.

Tempo fa ho rivisto proprio 2001 – Odissea nello Spazio. Con il giudizio di quasi 5 decenni di vita – corrotto o più affilato che fosse – ho dovuto ammettere a me stesso che la seconda parte è una rottura di palle clamorosa, di una lunghezza insostenibile e di cui non si capisce il senso.

Non dico che quel film non sia importantissimo e altissimo per mille motivi, ma di certo ne ho rivalutato un po’ l’importanza all’interno del mio nucleo di convinzioni (Barry Lyndon invece resta supremo).

In sintesi – che si è fatta una certa – i termini di riferimento di ciò che si considera fondamentale artisticamente e intellettualmente non dovrebbero esistere e resistere in un nucleo indistruttibile: il fatto di essere collocati in un sistema protetto non li rende assoluti. Per esserlo non dovrebbero appartenere ad alcun sistema di riferimento, perché il farne parte li rende, appunto, relativi.

Non so se il giudicare ogni cosa che vedo, leggo o ascolto in termini assoluti sia una risposta alla necessità – magari puramente personale – di trovare ciò che prescinde dal tempo. Mi piace pensare che sia solo un modo di rendervi giustizia e di cercare un’opera della mente che ha un valore che trascende tutto e tutti. Che ha significato in senso assoluto o comunque in maniera libera dal contesto. Non so nemmeno se ci sono mai riuscito. Per ora cerco solo di capire che forma ha l’essenza di un’opera che mi ha rivelato qualcosa, indipendente da come questa si collochi rispetto ad altro e nel flusso del tempo.

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