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Anche un incidente stradale ha un alto engagement

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Anche un incidente stradale ha un alto engagement

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L’engagement è la croce e la delizia di chi misura l’impatto di qualcosa pubblicato in rete. È un termine che definisce in realtà un insieme di parametri come la visibilità del contenuto, il suo apprezzamento o meno, se ha generato discussione. Se ha creato interesse, insomma.

Il paragone che più spesso viene da fare pensando al perché alcune cose generino interesse è quello con l’incidente stradale: non è una cosa bella da vedere ma, invariabilmente, quando se ne incontra uno la tentazione di darci un’occhiata è irrefrenabile. Perché scelgo un esempio del genere? Perché se si dovesse analizzare un incidente stradale con le metriche correnti non si potrebbe che decretarlo come contenuto virale. Crea moltissimo interesse, magari nessuno ci metterà il like ma sicuramente genera una discussione (“Non ha frenato”, “Era sbronzo”, “Colpa della segnaletica” ecc.). Ma il suo impatto statistico dice qualcosa della qualità del contenuto? No.

Si possono paragonare due contenuti con simile engagement e scoprire che sono diametralmente opposti nel messaggio: uno parla di Hitler e uno della pace nel mondo. E se pensi che Hitler non possa generare alto engagement sei un po’ naive.

Eppure l’engagement ha imperato e ancora impera oggi. La sua mitologia si basa su un assunto (falso) e su una fascinazione irrazionale. Il primo stabilisce che l’interesse per un contenuto sia anche un’indicazione della sua qualità, la seconda che nel grande numero ci siano per forza di cose anche gli individui che ti interessa raggiungere. Il che è un desiderata ma non una certezza. Basti pensare che l’engagement comprende lovers e haters perché — a rigor di logica — anche il puro odio è una manifestazione di interesse.

Per esperienza personale e avendo sempre vantato degli engagement da ciclostile della parrocchia mi sono sempre detto, parlando per esempio di Instagram, che non mi interessava il numero di apprezzamenti che ricevevo ma il tipo.

Non bisogna cercare la validazione generica ma quella particolare, delle persone la cui opinione è davvero importante.

In fondo da quando abbiamo iniziato a capire come funziona il gioco chiamato “Società” siamo alla costante ricerca dell’approvazione altrui. Averla ci colloca in un certo contesto e ci dà sicurezza.

Dopo che Fedez e la Ferragni si sono sposati ho letto puntigliosissime analisi dell’impatto che l’evento ha avuto sui social. Discorso tra l’altro avviato proprio dalla Ferragni, che ha pubblicato le statistiche per parlare ai suoi correnti e potenziali investitori e anche al suo pubblico. Quello che quei dati non dicevano e non potevano dire era la cosiddetta “granularità” del dato statistico, ossia come e da cosa fosse composto. Quanti avevano seguito il loro matrimonio per sincera ammirazione, quanti per spappolarsi il fegato e maledirli, quanti per capire chi diavolo fossero? Non è dato saperlo. Tutti nel medesimo calderone, cioè in quel numero esorbitante di contatti raggiunti dalle loro stories su Instagram o dalla foto dell’abito della sposa.

Un dato composto come l’engagement è interessante a livello di ego personale ma soprattutto perché, nel marketing, decide come veicolare gli investimenti pubblicitari. Assumendo anche che tutto il pubblico di un influencer sia reale e attivo (risate preregistrate) sembrerebbe lecito che un’azienda si chieda come sta spendendo i propri soldi. Sta parlando al pubblico giusto? Sta soprattutto parlando a chi è interessato per odio o per amore al personaggio a cui affida il proprio messaggio? E poi: è d’accordo sul come il suo messaggio è pronunciato o quello che conta è solo che venga diffuso a più persone, indistintamente?

Capita di vedere molto spesso una certa superficialità nell’affidarsi a questo e a quella, non curandosi molto della qualità del messaggio e del ricevente ma solo del fatidico engagement.

Esiste una metrica più precisa dell’engagement? Lo strumento forse più accurato attualmente disponibile è quello del like/dislike che — ma potrei sbagliarmi — utilizza solo YouTube. Facebook annuncia da tempo un tasto di dislike ma fino a ora ha messo a disposizione dei suoi utenti solo delle “reazioni” così limitate da farlo apparire come un neonato che ride o piange o si arrabbia. Nessuna sfumatura intermedia è contemplata, né tantomeno la disapprovazione. Forse è un primo passo verso la granularità dell’indagine, anche se parliamo comunque di un livello di dettaglio a dir poco grossolano.

Forse è invece il caso di spostare l’attenzione non sulla reazione dell’osservatore al contenuto ma al contenuto stesso. Valutarne insomma la qualità a monte piuttosto che lasciare che sia la sua viralità o meno a decretarne il successo o no. E per farlo forse — anche se è più difficile — bisognerebbe dare una valutazione agli utenti: autorevolezza, serietà, compostezza, pertinenza. Le categorie potrebbero essere molte ma credo sia una forma di profilazione complessa da ottenere ma più utile del sapere quanti anni ha Tizio o Caio o se gli interessano più i coltelli da cucina o le piante grasse. Sono dettagli interessanti, certo, ma anche capire la qualità del pubblico a cui si rivolge un’azienda dovrebbe esserlo altrettanto perché permette di concentrare meglio il messaggio e renderlo più efficace poiché si rivolge a persone interessate nel merito e non al contorno e al semplice buzz.

I numeri si ridurrebbero, temo. Si capirebbe però meglio il reale impatto di qualcosa, evitando di valutare la polvere sollevata come se dicesse qualcosa di realmente importante. No, è solo polvere.

Ritornando all’esempio iniziale, sarebbe come se all’incidente assistessero solo medici, infermieri e personale addestrato. Di certo meno persone ma più utili a risolvere davvero qualcosa. E la strada non sarebbe intasata da un ingorgo generato da pura curiosità morbosa.

Per un dato più puro, più vero. Un dato sincero.

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