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46 — A Love Supreme

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46 — A Love Supreme

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Ho scoperto solo pochi anni fa di compiere gli anni nello stesso giorno di John Coltrane. Oggi ne farebbe 94, quindi auguri a me e auguri a te, John (e grazie per tutto ciò che hai fatto).

Una delle sue composizioni più complesse, considerata non a caso il suo testamento musicale, è A Love Supreme. Credo sia anche l’ultima, prima che se ne andasse a 41 anni nel 1967. Gli sono sopravvissuto 5 anni, finora. Il che non significa niente: il legame fra me e John è che io l’ascolto ancora mentre lui morì che io non ero neanche nato.

Ho sempre considerato A Love Supreme un titolo stupendo. Immagino si riferisca a Dio, so che verso la fine della sua vita — anche se non sono certo che sapesse che se ne stava andando — Coltrane entrò in una dimensione mistica. A un certo punto del primo brano Acknowledgement lui stesso si mette a canticchiare questa nenia, come in una trance mistica, quasi fosse tornato bambino e ripetesse le prime parole che aveva imparato. In un certo senso chiuse circolarmente la sua vita, sviluppando da un lato il più raffinato e complesso linguaggio musicale, ritornando dal lato opposto al grado zero di quello orale. Chiudere circolarmente la vita non è affatto male, anche se a volte ti capita di doverlo fare a un punto che è anagraficamente troppo precoce.

Coltrane stava dicendo delle cose altissime senza parole.
Lo avverti ancora oggi ascoltando quel capolavoro, per molti versi oscuro. O forse così tanto profondo da non avere svelato tutto il suo messaggio.

Quando non so bene cosa pensare torno a Coltrane o, in genere, alla musica.
Oggi torno sui suoi passi anche per un altro motivo: per il senso della misura che aveva.
Se lo si ascolta un po’ si può pensare che la mia affermazione sia azzardata: in fondo lui di note ne usava tantissime, non era di certo un minimalista. Ma il numero non conta: conta che lui usasse le note che erano necessarie. Ecco che Coltrane, involontariamente, mi aiuta a parlare di ciò che mi sta a cuore oggi, all’alba dei 46 anni: la misura.

Quest’anno ho perfezionato un concetto che avevo iniziato a mettere a fuoco negli anni passati: quello del togliere il più possibile. Se c’è una cosa buona dell’invecchiare (che si chiama “maturare”, fino a 85 anni circa) è che capisci che le cose importanti sono poche e che non le vedi finché non togli tutto quello che le copre. E non parlo di quelle Cose Importanti che tutti sappiamo: non intendo l’amore, i sentimenti, i valori ecc. Intendo che a tutto — ma proprio a tutto — puoi togliere cose e vedere cosa ne resta, se resta qualcosa. Prendi un discorso o una pagina scritta: se le togli gli avverbi e le ripetizioni e gli abbellimenti ne resta l’essenza. L’essenza è sempre più forte, lucente, inequivocabile.

La vita è quel che resta quando hai tolto tutto ciò che non c’entra. La vita è l’essenziale.

È un processo che insegna molte cose: cosa resta di un’auto quando le togli tutto ciò che non serve? Un telaio, una carrozzeria, un motore, le ruote e il volante. Anche i sedili, certo. Quella è la base da cui partire per valutare il valore aggiunto di un oggetto: tutto ciò che aggiungi a un’auto e che la rende più confortevole e bella è il suo reale valore, che è diverso dalla sua essenza.

Quello che fa la differenza è il netto tra il non essenziale e l’essenziale.

C’è un limite oltre il quale non capiamo più che senso ha aggiungere qualcosa; lo facciamo solo perché ci siamo abituati e pare che il progresso sia quello: un segno positivo e basta.

Invecchiando — anzi, maturando — mi chiedo sempre più spesso “Quando è troppo?”. Da giovane non lo fai, da giovane è facile: non è mai abbastanza. Poi te lo chiedi e sei più interessato alla misura che all’eccesso, o almeno io.

La misura non è il poco: la misura è il giusto. Le cose devono avere una misura, le musiche una durata, un discorso le parole giuste.

La misura è un argine contro il caos, è un’ancora a cui ti aggrappi perché il fluire del tempo non ti trascini via. Solo quando suoni (io non so suonare, so solo ascoltare molta musica) devi rispettare un tempo, lo domini, lo rubi al tempo. Non è un concetto stupendo? Quando rispetti il tempo (e la misura) stai giocando a scacchi con il tempo. E stai vincendo.

John Coltrane suona ancora mentre scrivo. A Love Supreme è diviso in 4 movimenti: Acknowledgement/Accettazione, Resolution/Risoluzione, Pursuance/Conseguimento e Psalm/Salmo. Quattro movimenti/momenti che sono la misura di un percorso. Nel suo caso verso Dio o verso la trascendenza. Ma in sé, mi piace pensarlo, sono anche quattro vascelli che si oppongono allo scorrere del tempo. O ne cavalcano le onde, trovando un modo di dare forma al suo fluire e un senso al viaggio. I vascelli di Coltrane vanno verso Dio.

Coltrane ha tolto tutto mettendoci anche tutto quello che aveva. Era il suo testamento musicale, doveva dire tutto. La sua arte si era evoluta fino a quel punto, e oltre c’era solo Dio.

Come nelle più supreme (“supreme”, non a caso) composizioni musicali, la misura è tutto: è nel tempo ma è anche nell’uso delle note: solo quelle che servono.

Man mano che si accumulano gli anni ci si deve liberare di ciò che non serve, ritrovare la misura, ritornare all’essenziale.

Io non so se si tratti di tornare alla natura, so che gli alberi mi dicono più degli umani e so che mi trovo a guardarne le fronde con piacere e rapimento, spesso.

L’essenziale è ciò che resta quando cala il silenzio e quando le cose e la vita si sono tolte le vesti. Finalmente parlano solo con la loro voce, che non senti quando è coperta dal rumore di fondo delle cose che non c’entrano niente.

Resta l’essenziale, e la misura ne è la parte visibile. La senti in una musica, la percepisci in una pagina dove le parole occupano ogni spazio e solo quello che è giusto occupino. La misura è l’assenza di sprechi e di rumore.

Più accumulo anni, più voglio togliere il resto: il disturbo e la distrazione. Con misura e per amore della misura.

Buon compleanno a me, buon compleanno a tutti.
Con misura.

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