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Sono nato al nord e riconosco in me una forte attrazione per l’ordine e la precisione. Viaggiando ho però scoperto che il nitore di alcuni luoghi mi dà disagio e che sono altrettanto attratto dal disordine di certi altri. La geografia è destino: alcune città del nord Europa sono funzionali e funzionanti e riducono il dominio del caso al minimo tollerabile. Altre città, soprattutto quelle che si affacciano sul Mediterraneo, ne sono l’esatto opposto: clangore di gente e mezzi, traiettorie umane confuse e intersecanti, disordine. Dovrei esserne respinto e invece mi accade il contrario: quando mi ci trovo sono nel mio elemento, o almeno in uno degli elementi che mi definiscono. Contengo moltitudini, direbbe quello.

Nietzsche direbbe invece che si tratta dei due tratti del mio carattere: quello apollineo – ossia l’ordine, la razionalità e l’armonia – e quello dionisiaco, cioè l’istinto, la creatività, l’estro. Le città sono somme e acceleratori dei caratteri dei loro abitanti ed è quindi inevitabile che finiscano per assomigliarvi e viceversa. Il risultato è che gli elementi che mi definiscono – e che definiscono tutti, a saperli riconoscere – sono sparsi sul territorio in diverse città. Si può essere nel proprio elemento in diversi luoghi e forse l’unico discrimine è il tempo: non si è in equilibrio in un sol luogo ma lo si è solo nel movimento e nell’oscillazione. Da un luogo a un altro, da una città a un’altra, da un tempo a un altro. L’importante è muoversi,

Mi accadde la prima volta che andai a Napoli, lo avvertii a Istanbul o a Palermo, in certi quartieri di New York o ad Atene o Arles. Non mi è mai successo in Svizzera, chissà come mai.

In certi luoghi avverto le vibrazioni dionisiache: sono sotterranee, sono vitali, sono irresistibili. Sta succedendo qualcosa, il caos domina, il caso non è controllabile. La vita subisce un’accelerazione, palpita, si ferma e riprende a camminare sulle gambe di centinaia di migliaia di persone. Le città dionisiache producono la vita, quelle apollinee la contengono e le danno una forma.

Poi c’è Berlino.

A Berlino ci sono stato due volte. La prima volta era il 1997 e non ne capii niente. La stavano ricostruendo da soli sette anni. Era stata divisa e lo era ancora nelle menti, come lo è ancora oggi nel ricordo e anche nella toponomastica. È una città scritta, perché porta segni ovunque. A Berlino c’è la Topografia del Terrore, un edificio che avrebbe dovuto costruire l’architetto svizzero Peter Zumthor ma che poi non realizzò e al suo posto c’è un padiglione più anonimo che raccoglie le memorie delle nefandezze della Gestapo e delle SS. Sorge sulle macerie delle rispettive sedi, edifici demoliti per cancellare e punire, e per ricordare poi con questo pieno urbano: un edificio con un nome così terribile ed evocativo che contiene la parola “grafia”, la scrittura.

Mi ha sempre affascinato questo nome: l’idea che si potesse scrivere del terrore, o che si potesse dare una forma ordinata e archivistica al caos mortale del nazismo. L’idea che la scrittura abbia la forza di dare un senso, di creare un ricordo e di mantenerlo.

Tornai a Berlino nel 2016. I vuoti urbani che avevo trovato anni prima erano stati colmati da pieni progettati da architetti più o meno famosi e la città era stata suturata. Sembrava più una città, non saprei dirlo diversamente. La forza creatrice e dionisiaca aveva unito due parti ed era diventata forma urbana.

Continuavo a non capirla ma ci sono diversi modi per non capire qualcosa: può significare non riuscire a interpretare un segnale o anche non riceverne alcuno. Invece Berlino emetteva milioni di onde radio. Berlino ribolliva e ribolle.

Berlino si trova a nord, e quindi secondo la mia logica geografica dovrebbe essere una città apollinea. Invece è dionisiaca e apollinea, insieme.


Recentemente ho ascoltato un podcast: parlava di un luogo di Berlino. Un edificio, ancora una volta. Un club, ossia il Berghain: il più famoso ed esclusivo club techno di Berlino e forse del mondo.

Definendolo “esclusivo” però non si dice tutto: lo è perché accedervi è difficilissimo (del resto è un club, dice chi lo frequenta) ma non lo è nella comune accezione. Non si pagano costosi abbonamenti per farne parte: è esclusivo perché per riuscire a entrarvi bisogna superare la selezione dei severissimi bouncer. Guidati dall’enigmatico Sven Marquardt – ex-punk e fotografo di talento – il loro ruolo è quello di decidere chi è adeguato al luogo. I criteri di selezione sono insondabili e quindi è impossibile minimizzare il rischio di essere rifiutati. Non conta – o conta fino a un certo punto – come si è vestiti o come ci si atteggia. Il giudizio dei buttafuori del Berghain è inappellabile e ha la forma di un gesto: quello con cui dividono la fila in chi entra e in chi sta fuori, accompagnando questi ultimi con una rotazione del polso che indica di allontanarsi.

Il Berghain occupa un’ex centrale per la produzione di corrente elettrica che si trovava nella parte est della città. È un edificio gigantesco, spigoloso, impenetrabile. Una fortezza definita dall’autore del podcast PJ Vogt “Buckingham Palace in versione industriale, e occupato da squatter”.

È un club dove si ascolta musica techno, dove si tengono feste che durano diversi giorni, noto e frequentato dalla comunità gay berlinese, famoso anche per la sua estrema riservatezza: all’interno non si possono fare foto (le camere dei cellulari vengono oscurate e se ti scoprono a farne uso vieni sbattuto fuori) e di ciò che accade dentro e di come sono gli ambienti si sa pochissimo perché pochissimo dicono quelli che ci sono stati.

Eppure è l’esatto contrario di un club esclusivo, almeno per come lo si intende generalmente: entrarci (ammesso che ci si riesca) non richiede il pagamento di biglietti onerosissimi né le consumazioni sono particolarmente costose.

Ci sono aspetti del Berghain, ho capito dopo, che mi hanno attratto, e finiscono con una domanda. La segretezza del luogo, la difficoltà di accedervi e di intuire quali siano i criteri di selezione e infine i riti che avvengono dentro lo qualificano come un portale verso la dimensione dionisiaca.

Nella musica techno conta non solo chi fa la musica ma anche e soprattutto il pubblico. Chi prende parte al rito techno non è uno spettatore passivo della cerimonia e contribuisce in maniera fondamentale a officiarla. Per questo è essenziale che ogni persona sia accuratamente selezionata. Non ascolti la techno e non la balli: la fai. Per questo il pubblico viene selezionato in funzione di quanto attivo può essere nel rito collettivo. Sapere poi in base a quali doti divinatorie i buttafuori arrivino a capirlo è un altro discorso.

Non chiederti cosa può fare il Berghain per te ma cosa puoi fare tu per il Berghain.

Dioniso ti chiede il sacrificio, quantomeno del tuo tempo e della tua forza creatrice. Dioniso ti pone una domanda: cosa puoi fare tu per me? Sarai in grado di farlo?

Mi sono trovato a chiedermelo, apprendendo per la prima volta del Berghain e con la certezza quasi matematica che non mi farebbero mai entrare, ammesso poi che mi piacesse andarci (risposta: sì, anche solo per la curiosità). Il fatto è che non basta essere curiosi per entrarci perché il Berghain non vuole osservatori. Dioniso non vuole essere idolatrato: Dioniso accetta solo chi partecipata ai baccanali, chi li fa.

Il Berghain a cui mi riferisco è più che altro una categoria filosofica, una domanda esistenziale che prende la forma di un edificio tetragono in una città dove esistono eruzioni di forza creativa e scritture che ricordano il terrore e la morte (due opposti che si combattono). La domanda finale si declina alla singola persona singolare:

Quanto sei creativo? Quanto sei disposto a sacrificare alla creazione? Quanto sei disposto a dare a Dioniso?

Alla fine ho capito che Dioniso mi chiedeva quanto fossi creativo e quanto fossi in grado di cedere di me stesso per esserlo, forse annullandomi. Ho dovuto alla fine ammettere: non abbastanza.

Ho ripensato al finale di Itaca di Kavafis:

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Berghain è la fine di un viaggio, o l’inizio di un altro. Non puoi ritornarci senza aver prima vissuto, creato, distrutto e rigenerato ancora. Berghain è l’ordine silenzioso fuori e il caos dentro: è gli opposti, è Apollo e Dioniso, è la vita.

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