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Uno degli aspetti più sottovalutati delle proteste degli attivisti di diversi gruppi per la difesa del clima è una loro caratteristica comune: l’incollaggio degli stessi a opere d’arte o a vari supporti, siano muri, cornici o strade. Mentre la componente delle loro azioni si è sempre – comprensibilmente – concentrata sulla parte più scenografica dell’aggressione alle opere d’arte (il lancio di vernice o di salse alimentari di vario genere) mi pare che la successiva operazione di incollaggio sia stata meno indagata. 

Non mi meraviglio, perché è anche la meno facilmente comprensibile. 

Imbrattare è un gesto evidente: nella sua dinamica è un segno di spregio nei confronti di opere d’arte immense, ma ha l’attenuante di agire sempre contro capolavori protetti, quindi si tratta di una doppia premeditazione: sia nel gesto in sé che nella cautela con cui la vittima viene scelta, in modo cioè da non danneggiarla in alcun modo. Perché però incollarsi a queste opere? 

La forza comunicativa delle proteste è la loro essenziale semplicità. Una protesta deve essere chiara nelle intenzioni altrimenti manca il suo obiettivo principale: la propagazione del messaggio. 

Se le modalità e gli intenti non sono chiari, una protesta non ha forza e diventa incomprensibile all’opinione pubblica, cioè ad almeno uno degli interlocutori a cui si rivolge. E se imbrattare opere d’arte suscita qualcosa di forte nell’immediato (positivo o negativo, più quest’ultimo che altro, anche perché le opere sono viste come inermi ed estranee alla questione), l’atto dell’incollaggio è incomprensibile.

Indagando un po’ (ma neanche tanto) ho scoperto che il gesto dell’incollaggio ha una ragione. Curioso che la spiegazione sia facilmente rintracciabile se si cercano indizi in inglese mentre in italiano la risposta alla domanda “Perché gli attivisti si incollano?” è: “per sensibilizzare la politica contro il collasso del clima mondiale”, il che ti porta solo a ripetere “Lo so qual è il motivo, ma perché si incollano allora?”, ad libitum. Dicevamo: la spiegazione è che incollandosi, gli attivisti estendono l’atto della protesta che non si consuma più nell’exploit situazionista del lancio di qualcosa su qualche capolavoro, ma si estende nel tempo: fintanto insomma che non riescono a scollarli e portarli al più vicino comando di polizia.

La spiegazione sarebbe soddisfacente se fossimo nel 1980 ma oggi, nell’era dell’informazione che è talmente immediata che poco ci manca che diventi predittiva, l’estensione temporale di un atto ha un’importanza molto relativa rispetto all’atto in sé. Come viene ricevuta la notizia delle loro gesta dal punto di vista della gerarchia dell’informazione? Così: 

  1. Attivisti lanciano [salsa, vernice, ragù] contro [capolavoro] nel [museo taldeitali]
  2. Poi si incollano alla [parete, cornice, strada]
  3. Infine rilasciano una dichiarazione contro [governi, società, azienda A, B, C] proclamando che il loro gesto è per [motivo 1, 2, 3].

Inutile specificare che alla notizia sopravvive (nel senso che penetra nel dibattito pubblico) il punto 1, meno il punto 2 e poco assai il punto 3, che è poi quello che conta, almeno dal loro punto di vista. 

Diciamo pure che il 2 se ne sta lì, fra 1 e 2, e viene ricevuto e catalogato con un “Ahn, si sono pure incollati, vabbè”, per poi passare al punto 3.

Se insomma queste proteste – come tutte le proteste! – hanno lo scopo di sensibilizzare, questa disorienta e confonde, di certo non suscita simpatia per chi la attua, anche perché mette in mezzo delle opere considerate patrimonio mondiale.

Bene. Resta la questione dell’incollaggio. 

Mi ero dato spiegazioni avvitatissime del tipo “È chiaramente un tentativo di stabilire un contatto con la realtà fattuale” oppure “Hanno scelto un messaggio fortemente analogico in contrapposizione alla vacuità del digitale: rivendicano chiaramente la loro dimensione temporale, immanente, concreta e fortemente reale”. Ma figurati, sforzati pure meno Martino. 

La spiegazione è la più semplice, si diceva, e ha a che fare con l’estensione dell’atto. Il problema è che nel contesto informativo attuale e soprattutto rispetto alla soglia di attenzione che abbiamo ormai tutti (un criceto pratica il deep thinking, al confronto), quel gesto “passa” nelle maglie del sistema solo attraverso l’immagine che produce, cioè l’imbrattamento. Fine. Questi atti di protesta devono misurare la propria efficacia rispetto al linguaggio che tutti parlano (e capiscono), e parliamo quindi delle immagini, e neanche tante. Si dirà “Ma anche i video circolano, eccome”. Verissimo, ma anche in quel caso l’attenzione si posa sul lancio e meno sull’incollaggio, figurarsi sul proclama seguente. Non dico che non si parli di questi dettagli, dico che se ne parla di gran lunga di meno. Sopravvive l’atto più odioso, o almeno percepito come tale dalla maggioranza delle persone.

E concludo: l’incollaggio avrà un effetto pratico (ritardare le procedure conseguenti al gesto di protesta) ma non le sfrutta dal punto di vista mediatico. Personalmente sarei anche interessato a sapere come li hanno scollati (hanno usato dei solventi? Gli hanno strappato la pelle?) ma credo sia più una mia curiosità che un’informazione utile o funzionale alla narrativa della protesta. 

Forse ho l’ossessione dell’economia della comunicazione (curioso dirlo alla 400esima riga di un articolo che poteva essere più breve, ma avevo poco tempo e allora ho scritto a lungo) ma in questi gesti non mi pare di ravvisare una grande efficacia. 

Non parlo del merito della questione e della bontà delle loro argomentazioni ma solo del come hanno deciso di parlarne: della voce che usano e delle parole e azioni che scelgono.

Loro dicono che comunque hanno ottenuto che se ne parli: a me pare che se ne parlasse e parli comunque, a prescindere da queste proteste. E comunque non sono ancora sicuro di aver capito perché vi siete incollati.

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